20 Settembre 2013

Notes, 20 settembre 2013

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Instabilità. La residenza stabile di un vescovo nella propria diocesi in antichità era norma. Tanto che alcuni Concili del primo millennio prevedevano la scomunica in caso di inadempienza. Il motivo di tale norma era proprio quello accennato nelle parole del Papa ai presuli presenti a un Convegno per i nuovi vescovi tenuto in Vaticano (vedi nota): ovvero che il trasferimento di un presule da una diocesi all’altra può essere occasione di carrierismo.

La stabilità dei vescovi è stata più o meno prassi consolidata nel primo millennio, salvo eccezioni che ne confermavano la regola – spostamenti a causa di forza maggiore o per disposizione superiore. Tale disciplina è andata attenuandosi nel tempo, fino, di fatto, a scomparire in epoca moderna. Anzi negli ultimi decenni si è assistito a una netta inversione di tendenza, ora che la “mobilità” episcopale è diventata prassi consolidata.

In anni recenti diversi presuli di santa romana Chiesa hanno lamentato il fenomeno. In particolare, e in maniera autorevole, è stato il cardinale Bernardin Gantin, a lungo decano del sacro collegio, a mettere in evidenza i pericoli sottesi al fenomeno, nel tentativo di porvi un freno, o quantomeno disciplinarlo. Intervistato dalla rivista 30giorni, aveva detto: «La dignità dell’episcopato sta nel munus [dono, ma anche compito ndr,] che comporta ed è tale che per sé prescinde da ogni ipotesi di promozioni e di trasferimenti, che andrebbero, se non eliminati, resi rari. Il vescovo non è un funzionario, un avventizio, un burocrate di passaggio, che si prepara per altri più prestigiosi incarichi». Parole che riecheggiano quelle attuali di papa Francesco.

Rimandiamo, chi voglia rileggere le parole del compianto porporato, all’integrale dell’intervista, come anche ad un altro articolo, sempre di 30giorni, che dettaglia l’evoluzione della disciplina e della prassi riguardo la materia da parte della Chiesa. Non siamo specialisti, quindi non ci permettiamo aggiungere.

Quello che pare evidente è che Francesco, che più volte ha lamentato il carrierismo ecclesiastico, ha lanciato un sasso nello stagno. Auspicando un cambiamento di rotta. È un invito, un’esortazione misericordiosa che il buon pastore rivolge agli altri pastori della Chiesa, ma non è detto che non si trasformi in qualcosa di più in questi tempi di riforma. Anche perché un’eventuale riforma in questo campo potrebbe causare alla Chiesa, e al mondo, più benefici del risanamento dello Ior.

Questa (eventuale) riforma potrebbe marciare in parallelo con l’auspicato riavvicinamento con l’Ortodossia, del quale già si sono avuti alcuni segnali incoraggianti. Anche in questo secondo caso si tratterebbe di tornare alla Chiesa indivisa del primo millennio (sul punto si è soffermato il Papa nell’intervista alla Civiltà cattolica).

Un Papa immaginato come progressista che potrebbe riportare la Chiesa al primo millennio: può apparire paradossale per chi guarda la Chiesa come un’organizzazione mondana, una Ong direbbe Francesco. Ma è tutt’altro. E quel che appare come un ritorno al passato è invece un semplice ritorno all’essenziale. Proprio il motivo per il quale è stato scelto dal Signore un papa di nome Francesco.

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