6 Marzo 2014

Alberto Giacometti, L'uomo che cammina

Alberto Giacometti, L'uomo che cammina
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Questa  foto mi ha colpito appena l’ho vista: siamo a Villa Borghese, museo che in queste settimane sta ospitando una mostra delle sculture di Alberto Giacometti. Trattandosi di sculture non c’è stato bisogno di spostare i normali allestimenti, così i bronzi scarnificati del grande artista svizzero sbucano in mezzo a marmi e dipinti, un po’ come delle strane apparizioni.

Premetto che amo Giacometti come pochi altri artisti del ‘900. Lo trovo un artista vero, straordinariamente umano, che non cerca mai legittimazioni intellettuali alle sue opere; un artista che non bara e che non fa mai sconti alle proprie inquietudini. Ma Giacometti è anche artista “di montagna” in quanto nato appena aldilà del confine italiano, alle pendici del Malora: quindi ha una caparbietà che lo porta sempre a erigere forme, anche laddove l’erosione esistenziale che lo assedia e lo circonda condurrebbero al loro annientamento. Le forme di Giacometti sono magre come lo era lui. Sono filiformi come quest’Uomo che cammina che è un po’ come la sua icona. Ma sono alla fine sempre forti e determinate a solcare il mare dell’inquietudine. Quando gli chiedevano se le sue sculture dovessero finire in un museo, con il suo gusto per i paradossi diceva di no. E suggeriva: «Seppellitele nella terra. Così faranno da tramite tra i vivi e i morti».

Oggi perciò fa specie vedere le sue sculture “prigioniere” di un museo; ma proprio per contrasto si capisce quanto lì siano straniere. Infatti quando ho visto questa foto, in cui l’Uomo che cammina sembra in realtà un uomo che tenta di scappare da questa “gabbia”, ho capito che il contrasto con il contesto rende evidente quale sia la forza della scultura di Giacometti. Spogliate di tutto, ridotte ad una nudità estrema, queste sculture sono come testimoni di un’arte che si è tolta tutto di dosso pur di riuscire ad aderire alla vita. Ogni retorica è azzerata, ogni enfasi intellettuale è zittita. Non ci sono piedistalli, non ci sono nicchie in cui trovano una loro collocazione. Sono presenze senza una patria. Quasi dei “sempre vivi”. Figure in cerca di un qualcuno o di un qualcosa. Se ci colpiscono e ci commuovono in questo loro infinito  vagare, è per il fatto che la loro consistenza deriva tutta da ciò (o da chi) stanno cercando. E verrebbe da suggerire un cambio di titolo: non L’uomo che cammina ma l’Uomo “in” cammino.

 

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