7 Giugno 2016

Sigmar Polke, In fuga

Sigmar Polke, In fuga
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A Venezia, a Palazzo Grassi è in corso la mostra di uno dei più importanti artisti a cavallo tra secondo e terzo millennio. Si chiama Sigmar Polke, artista tedesco morto nel 2010. Polke insieme a Gehrard Richter e ad Anselm Kiefer compone la triade di tre maestri, tutti provenienti dalla Germania dell’Est, che hanno declinato il loro fare arte come potente riflessione sulla storia.

 

Dei tre Polke è il più libero da tante ossessioni che tengono prigioniero l’immaginario di tanta cultura tedesca post bellica. È uno che porta la riflessione sulla storia in un orizzonte globale e soprattutto la declina con un linguaggio sempre imprevedibile. L’imprevedibilità è davvero la sua forza. Tra i quadri “politici” presenti in mostra due colpiscono in modo particolare.

 

Il primo è una riflessione folgorante sulla condizione di chi cerca di passare il confine tra Usa e Messico (Amerikanisch-Mexikanische Grenze, 1984): su un giallo intensissimo e bruciante che nessuna riproduzione riesce a restituire, si vedono delle sagome nere, tracciate come insieme di pixel. Una di queste sembra essere un’impronta rimasta sulla rete di confine. Un corpo ridotto a macchia, come se la violenza di quella barriera volesse far propria anche l’anima di chi tenta di oltrepassarla.

 

Un’altra opera invece, pur nella complessità della tecnica con cui è stata realizzata, resta più facilmente riproducibile. È del 1992 e si intitola Flüchtende, cioè In fuga. Sono due figure che ci corrono incontro, trascinandosi un sacco e una valigia.  Non sappiamo chi siano. Hanno un aspetto normale, ma nel loro incedere precipitoso comunicano l’ansia di chi non può guardarsi alle spalle, perché alle spalle non ha più terra in cui sperare di vivere.

 

Un alone verde circonda queste due figure. Un verde elettrico, reso probabilmente con del colore spray. Inutile coglierne delle simbologie: se anche ci fossero Polke sarebbe l’ultimo a svelarcele. Ma quel verde resta impresso sulla nostra retina, come un colore-impronta che non si toglie più dallo sguardo, anche quando giriamo lo stesso sguardo da un’altra parte.

 

Non è semplicemente un’opera di denuncia sociale quella di Polke. È un affondo nella condizione esistenziale del migrante. È un calarsi in quelle vite braccate dalla storia, che non hanno più luogo dove far riposare le proprie membra. E, dall’altra parte, la loro è corsa che non conosce esitazioni, dubbi e ripensamenti. Non è una corsa a caso. C’è determinazione, speranza di futuro in questo loro precipitarsi verso la terra in cui noi siamo.

 

In un certo senso Polke ci fa vedere anche da dove vengono, svelando attraverso le trasparenze traslucide della tela in poliestere, la gabbia del telaio: uno svelamento che suona quasi come una metafora. Escono non solo da una situazione sociologicamente invivibile, ma anche dal rischio di una narrazione retorica che abitualmente ne viene fatta.

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