8 Luglio 2014

Il Califfo di Camp Bucca e il Risorgimento italiano

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Uno strano Califfo si aggira per il mondo. E lancia la sua sfida mortale all’intorno. Si chiama Al Baghdadi ed è il capo di quell’accozzaglia di tagliagole che sta spargendo il terrore in Iraq. Rispetto ad altre icone del terrore, lo strano Osama Bin Laden e lo stranissimo medico egiziano Al Zawahiri (ancora attivo nonostante decenni di caccia), questi ha la particolarità, appunto, di proclamarsi Califfo, ovvero di offrire ai suoi miliziani oltre al brivido della clandestina guerra del terrore, l’utopia di uno Stato sovrano paradisiaco, governato dalla sharia – la sua sharia ovviamente -, pronto a dilagare nel mondo arabo a partire dai Paesi confinanti (dall’Iraq al Libano, dalla Giordania alla Siria). Sui giornali si affollano articoli che spiegano la conflittualità tra questo nuovo mostro partorito dall’integralismo islamico e al Qaeda, dettagliandone le differenze, invero poco interessanti: come parlare delle differenze tra il marchio della Coca cola (in una celebre intervista Lucia Annunziata aveva definito in questo modo il vecchio Osama) e la Pepsi.

Questo Baghdadi era uno dei tanti terroristi da mezza tacca arrestati dai marines. Internato a Camp Bucca nel 2005, una delle tante Guantanamo dislocate qua e là, viene rilasciato quattro anni dopo per ordine superiore. Subito diventa esponente di spicco di una delle tante bande di tagliagole jihadiste e poco a poco crea l’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che ha la mission di spodestare Assad in Siria, come tante altre bande consimili. Riceve armi, denaro dalle monarchie del Golfo e da ambiti occidentali che sostengono il regime change. La sua forza è anche nella possibilità di sfruttare il retroterra iracheno per lanciare i suoi attacchi in Siria. Presto diventa la più importante organizzazione anti-Assad insieme alla gemella Al Nusra, con la quale ha un rapporto conflittuale (capita nelle guerra per bande).

Tutto cambia con le elezioni siriane del giugno scorso e la prevedibile affermazione di Assad. Elezioni farsa, le definisce il mondo. Eppure non deve essere stato così se, in seguito a queste, quanti avevano sostenuto fino a quel momento il regime change iniziano a lamentare l’impossibilità di aver ragione di Damasco. Anzi, il consolidamento della posizione del Presidente siriano fa balenare un altro pericolo. A maggio in Iraq, in seguito a libere elezioni certificate anche dall’amministrazione americana, si è affermato il leader sciita Al Maliki. Dopo anni in cui l’Iran è stato relegato in un angolo remoto del mondo, si paventa il suo sdoganamento definitivo: non solo può sedersi a un tavolo con gli Usa per trattare sul nucleare, ma può contare sulla presenza, nel vicino Iraq, di uno governo retto da un correligionario e sulla tenuta di Assad, con il quale da tempo è legato da affinità di visione geopolitica riguardo il Medio Oriente (non per nulla l’Asse del male tracciata dai neocon collega la Siria di Assad all’Iran).

Così, contro Al Maliki si rovescia lo tsunami dell’Isis. Da un regime change all’altro, dopo la Siria, l’Iraq.  Per una strana affinità elettiva, con l’apparire del mostro, nel mondo occidentale si diffonde la convinzione che Al Maliki sia inadeguato. Sono davvero tanti, a iniziare dall’amministrazione Usa, quelli che chiedono al premier iracheno di dimettersi per far posto a un governo di unità nazionale con i sunniti. Le cancellerie occidentali motivano tale consiglio spiegando che la scarsa inclusività del governo avrebbe consegnato ai terroristi il favore dei sunniti iracheni. Un consiglio, quindi, motivato dalla preoccupazione di porre un freno all’avanzata dell’Isis. E però questa preoccupazione, se reale, avrebbe dovuto essere accompagnata da un sostegno efficace a Baghdad. E invece niente di niente. Si è mosso guerra a Saddam per inesistenti armi di distruzione di massa; si è mosso guerra ad Assad perché averebbe sparato sui dimostranti; si è mosso guerra a Gheddafi per le stesse ragioni di Assad.  I simpatici tagliagole di Al Baghdadi hanno distribuito filmati di fattura holliwoodiana – la definizione è di un autorevole giornale italiano –  nei quali sono immortalate le uccisioni di massa di migliaia di civili inermi e nulla di nulla. L’unica iniziativa presa finora in Occidente è stata, da parte Usa, l’invio di 300 fantaccini…

C’è chi ha ipotizzato che a frenare l’Occidente sia la riluttanza ad avventurarsi in altre guerre. È una spiegazione, ma non si capisce allora perché a settembre dello scorso anno solo un miracolo ha evitato questa eventualità in Siria (allora Hillary Clinton era molto determinata, sull’Iraq ha espresso il suo niet). Altra ipotesi è che a frenare un intervento sia l’eventualità di scendere in campo a fianco dell’Iran (mobilitato a sostegno del vicino). Ma c’è un’altra spiegazione che circola sottotraccia, in particolare sul web, ovvero che in tanti ambiti occidentali serpeggi la convinzione che i terroristi di Al Baghdadi, nonostante suscitino qualche apprensione, siano da preferirsi al consolidarsi definitivo di un rapporto tra Iraq e Iran. Sicuramente è così per i tanti ambiti che hanno alimentato, e alimentano, la guerra in Siria.

Anche se l’Iraq restasse nell’orbita sciita, la sfida di Al Baghdadi potrebbe impelagare Iran e Iraq per il prossimo decennio in un conflitto senza fine e continuare ad alimentare la guerra siriana… D’altronde al Califfo di Camp Bucca i soldi non mancano, ora che ha preso anche il controllo di qualche pozzo petrolifero (ci sarà un embargo o compreremo il petrolio da chi minaccia di distruggere Roma?) e potrebbe continuare la sua danza macabra per lungo tempo.

A questo punto occorre tornare indietro e porsi alcune domande. Com’è possibile che gli uomini neri di Al Baghdadi possano lanciare la loro offensiva senza che alcuno se ne accorga? Si tratta di un angolo di mondo tra i più monitorati da parte dell’Intelligence occidentale, stante anche la guerra siriana. Possibile che nessuna spia, nessun satellite, nessuna intercettazione abbiano fatto suonare un campanello d’allarme preventivo? Altra domanda: com’è possibile che 5000 persone, questo il numero dei miliziani al seguito del Califfo di Camp Bucca, abbiano avuto la meglio su un esercito tra i più armati del Medio Oriente? La loro offensiva è stata facilitata da diserzioni di massa e rese da parte di ufficiali. La spiegazione più accreditata, si è detto, è che la motivazione di queste defezioni sia da ricercarsi nell’identità religiosa. Per capire quanto sia infondata questa spiegazione, basta guardare quanto accade ai sunniti della vicina Siria quando i loro villaggi cadono sotto il giogo degli assassini in camicia nera, una triste realtà che deve essere ben nota ai sunniti iracheni. Il fatto è che della religione ad Al Baghdadi, e agli altri funzionari del terrore, importa poco o nulla: solo un mezzo di propaganda, null’altro.

Insomma resta un mistero. In questi giorni mi sto dilettando con un altro piccolo mistero, il giallo di Rino Cammilleri Sherlock Holmes il misterioso caso di Ippolito Nievo. Nel giallo anche una lettura diversa di un capitolo della nostra storia nazionale: Garibaldi con i suoi mille idealisti in camicia rossa non poteva certo sperare di sconfiggere l’esercito borbonico, tra i più solidi della Penisola, nonostante i tanti favori a lui accordati dall’Inghilterra e dal Piemonte. Certo, i piemontesi avevano presto ingrossato le fila garibaldine di soldati veri, arruolati sotto mentite spoglie. Ma il successo sarebbe stato favorito da altro: soldi, tanti soldi, che i sostenitori dei mille (prima indicati) avevano fatto pervenire agli ufficiali borbonici perché favorissero l’avanzata garibaldina verso Napoli. Nulla di particolarmente nuovo, anche se in contrasto con la storiografia ufficiale. Il caso ha voluto che leggessi questo libro ora, quando un pugno di feroci avventurieri è riuscito in un’impresa similare. Coincidenze della vita.

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