25 Settembre 2014

Isis: una guerra, due prospettive

Isis: una guerra, due prospettive
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Con colpevole ritardo, dal momento che i bombardamenti sono già iniziati, gli Stati Uniti fanno passare al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione per la guerra all’Isis che prevede l’intervento armato, misure contro le ong “filantropiche” che finanziano il terrorismo (hanno un ruolo di primaria importanza nell’alimentare tale network) e altre per contrastare il reclutamento nelle fila di queste organizzazioni in Paesi terzi.

Questi ultimi due aspetti della risoluzione Onu, che hanno un’efficacia di contrasto molto più importante dell’intervento militare, devono trovare applicazione nei diversi Paesi nei quali finora si sono verificate tali devianze. Dubitare su una pronta applicazione delle decisioni Onu è lecito: anche la guerra in Afghanistan post 11 settembre fu preceduta da fiere dichiarazioni tese a indicare come priorità della campagna militare l’eradicazione delle colture del papavero da oppio dal Paese, che lo rendevano il più importante produttore di droga del mondo. Dichiarazioni che avevano a che fare con la lotta al terrorismo che con il traffico di droga si finanziava (cosa che accade anche adesso). Ancora oggi in Afghanistan si produce l’80% dell’oppio mondiale.

Al di là dei particolari, con questo passaggio all’Onu l’azione militare contro l’Isis voluta dagli Stati Uniti ha trovato una sorta di copertura legale e una convergenza più ampia, grazie al consenso di Russia e Cina. Certo, resta il dubbio, anzi la certezza, che si potesse intervenire in altro modo, con più efficacia ed evitando ulteriore destabilizzazione in Medio Oriente. Ne abbiamo parlato ampiamente, non ci ritorneremo: ormai è andata, purtroppo rien ne va plus.

 

È iniziata una nuova guerra quindi, stavolta contro l’Isis e il variegato mondo del network del terrore. Ma questa guerra ne nasconde un’altra al suo interno, molto più importante e decisiva per il futuro dell’umanità: quella che si sta giocando in seno agli Stati Uniti d’America, e altrove, sulle prospettive di questo nuovo conflitto. Che vi siano divergenze di approccio alla problematica del terrore è stato chiaro anche dalla polemica a distanza tra il senatore John Mc Cain e la Casa Bianca: il primo (famosa la fotografia che lo immortala con il leader dell’Isis Al Bagdadi) aveva dato per sicura la presenza dei marines sul suolo iracheno, cosa che l’amministrazione Usa ha prontamente smentito.

Divergenze più importanti però riguardano la prospettiva ultima di questa campagna. Da una parte i neocon vorrebbero che il nuovo conflitto, sulla scia di quelli precedenti, sia incanalato nel solco dello scontro di civiltà, con l’Occidente che si erge a difesa dei valori occidentali contro la barbarie dell’estremismo islamico. Una prospettiva che si accompagna a quella di una riorganizzazione del Medio Oriente secondo uno schema che prevede anche l’abbattimento di alcuni Paesi ritenuti “canaglia” (Iran e Siria i restanti; l’altro, la Libia, è già andato). In questa prospettiva la guerra all’Isis può ridare fiato alla retorica anti-islamista (che fa il paio con quella pseudo-islamista propria degli sgozzatori seriali) e permettere di abbattere finalmente Assad, che ancora resiste al regime-change: cosa che si può ottenere sia armando in maniera più massiccia le milizie che vi si contrappongono, sia usando della campagna anti-Isis per creare nuovi motivi di tensione e di conflitto tra la comunità internazionale e Damasco.

 

A quanto pare Obama è riuscito a smarcarsi, almeno al momento, dall’abbraccio soffocante dei neocon, immaginando una prospettiva diversa. Nel suo intervento all’Onu, infatti, il presidente degli Stati Uniti ha chiaramente affermato: «noi rifiutiamo ogni accenno a uno scontro tra civiltà». E ha spiegato che «gli Stati Uniti non sono e non saranno mai in guerra contro l’Islam. L’Islam insegna la pace. I musulmani di tutto il mondo aspirano a vivere con dignità e giustizia. E se parliamo dell’Islam e dell’America non esiste un “noi” e un “loro”: ci siamo solo “noi”, perché milioni di musulmani americani sono parte del tessuto del nostro Paese». Parole che i neocon non possono che aver accolto con fastidio.

 

Ancora più interessante, a questo proposito, un altro passaggio del discorso di Obama: «Dobbiamo agire su quel ciclo di conflitti – specialmente i conflitti settari – che creano le condizioni ai terroristi di emergere. Non è una cosa nuova, la guerra all’interno delle religioni. I cristiani sono andati avanti secoli a combattere conflitti settari. Oggi è la violenza all’interno delle comunità musulmane […]. È arrivato il tempo di riconoscere la distruzione provocata dalle “guerre per procura” e dalle campagne di terrore tra sunniti e sciiti nel Medio Oriente».

Appare decisivo, nella prospettiva indicata da quest’ultimo passaggio, l’accordo tra Iran e Arabia saudita, rispettivamente le due autorità di riferimento di sciiti e sunniti. Da tempo i due Paesi stanno intessendo, tra aperture e ambiguità, un faticoso dialogo sottotraccia, che si è intensificato con la minaccia dell’Isis.

Solo alcuni giorni fa, dopo anni di scontri, sciiti e sunniti hanno trovato un accordo che sembra aver stabilizzato la situazione nel piccolo Stato del Golfo del Bahrein. Una piccola cosa, certo, ma forse è la prima volta da quando è iniziata questa guerra settaria che le due anime dell’islam giungono a un accordo formale. E sembra impossibile che tale accordo non sia stato negoziato, a un più alto livello, tra Teheran e Ryad.

 

Il Presidente Usa ha poi ribadito la sua condanna verso Assad e rivendicato l’equipaggiamento e l’addestramento della cosiddetta opposizione siriana da parte della sua amministrazione. Ma al di là della retorica sul punto (non esiste opposizione moderata ad Assad in Siria, solo milizie più o meno criminali come l’Isis: sono queste ad essere equipaggiate e addestrate dagli Stati Uniti d’America), ha concluso affermando che «la sola soluzione duratura alla guerra civile siriana è di tipo politico». Parole che lasciano intendere l’ipotesi di un compromesso a un più alto livello tra sostenitori di Assad e suoi oppositori (Paesi esteri) per una «transizione politica inclusiva». È il modello attuato in Iraq dove, in un quadro di accordo tra Usa e Iran, il premier Al Maliki si è dimesso e al suo posto è andato un suo omologo sciita, con il mandato di attuare una politica più inclusiva rispetto ai sunniti.

Un’ipotesi illegittima per quanto riguarda la Siria, dal momento che alle elezioni del giugno scorso la popolazione siriana ha espresso il suo largo favore nei confronti di Assad. Ma al di là degli evidenti limiti, resta che la posizione espressa da Obama è altra cosa dall’ossessiva idea dei neocon (e della Clinton) di attuare un regime-change a Damasco attraverso un intervento militare diretto.

 

Significativo che, accennando al fatto che occorre «mettere fine a questa follia», Obama spieghi: «È il momento per un negoziato più ampio in cui le grandi potenze regionali affrontano le loro differenze in modo diretto, onesto e pacifico intorno a un tavolo». Nulla a che vedere con la follia neocon, i quali avevano sognato una «guerra infinita» che riportasse ordine, il loro ordine, nel mondo.

Un discorso, quello di Obama, che richiamava quello tenuto al Cairo all’inizio del suo mandato. E che tante speranze aveva suscitato. Ma è stato un po’ occultato dalla notizia dell’uccisione, tramite decapitazione ad opera di funzionari del terrore algerino, di un turista francese. Fa più rumore una testa che rotola che un discorso all’Onu…

 

Le differenti prospettive che agitano l’America, e non solo, hanno un riscontro pratico anche sul campo di battaglia: se da una parte i falchi vorrebbero che Iran e Siria siano esclusi dall’alleanza e anzi siano di fatto considerati alla stregua di possibili obiettivi futuri di questa campagna militare contro l’Isis, invece nel corso dei primi raid Damasco e Teheran si sono mossi in sintonia con la coalizione anti-Isis, come in presenza di una qualche tacita alleanza, una qualche implicita convergenza.

Da notare inoltre che i primi raid non hanno colpito solo l’Isis, ma anche Al Nusra (e la sua affiliata Khorasan, di fatto una sottomarca di Al Nusra) che rappresenta il nemico più formidabile (insieme all’Isis) del regime di Damasco. Il cui ruolo, con l’accrescersi della presenza mediatica dell’Isis, era stato occultato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, nonostante si sia resa responsabile di crimini efferati quanto l’Isis.

Conflitto complesso dunque, come complesso è il nemico che si intende abbattere.

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