Casa Bianca: questione di retrospettiva
Tempo di lettura: 3 minutiIn una sola settimana l’aviazione russa ha inferto all’Isis più danni di quanti ne abbia subito in oltre un anno di contrasto da parte dell’apposita coalizione messa su dagli Stati Uniti. Una campagna che i russi stanno documentando con accuratezza, diffondendo video e immagini dei loro raid.
Non abbiamo visto in passato analoga documentazione da parte delle forze Usa. Anzi abbiamo assistito con inquietudine al proliferare di video del Califfato che mostravano miliziani e convogli esibiti in bella posa, alla luce del sole, senza tema di alcun disturbo.
Prima o poi dagli Usa dovrebbero spiegare alla comunità internazionale perché tanta criminale inefficienza nei mesi passati, che ha permesso al tumore di effondere metastasi. E perché, come ha ricordato loro un diplomatico russo, in tutto questo tempo hanno bombardato il deserto. La sola insipienza sul piano militare, a quanto pare endemica nell’esercito Usa dai giorni del Vietnam, può spiegare solo in parte la tragica defaillance.
Oggi i teatranti dell’Isis fuggono in preda al panico: si ha notizia di 3.000 rifugiati in Giordania e 600 in Turchia. Va da sé che in questi Stati non verranno ricercati né perseguiti, nonostante ambedue aderiscano alla fantomatica coalizione anti-Isis di cui sopra.
Insomma, il giocattolo va in frantumi. Suscitando le lamentele del senatore John Mc Cain, che ha protestato perché i russi hanno bombardato i «ribelli addestrati dalla Cia» (tanti vi hanno letto l’ammissione di un legame tra servizi segreti Usa e formazioni terroristiche, dal momento che di ribelli moderati in Siria non ce n’é traccia).
E innescando reazioni in Turchia e Arabia Saudita, che insieme ad altri Stati arabi e occidentali starebbero meditando di costruire una sorta di scudo difensivo per i ribelli; c’è il rischio, non troppo celato per la verità, che si finisca per creare una rete protettiva per i terroristi.
Ma siamo ancora alle prime battute di questa nuova fase del conflitto siriano, tante ancora le incognite sul terreno.
Quel che però va segnalato è che sulla politica di contrasto all’Isis si registra una seria spaccatura tra il presidente degli Stati Uniti e la candidata democratica alla sua successione, Hillary Clinton. Ne accenna un articolo del Corriere della Sera del 5 ottobre, ricordando che la Clitnon è «sempre stata molto più interventista di Obama», come ha dimostrato in occasione del conflitto in Iraq e in Libia. Per questo i neocon hanno scommesso su di lei (ma hanno candidati “amici” anche nei repubblicani) come prossimo inquilino alla Casa Bianca.
Di fatto, il motivo del contrasto con Obama, al di là dei punti di divergenza esplicitati, è la politica di appeasement nei confronti di Putin.
La presa di distanza della Clinton, in affanno sui sondaggi nonostante le aspettative esaltanti, gli consente di sostenere una posizione più “libera” e critica rispetto alle scelte di Obama.
Una critica che però se da una parte è incalzata da quella parallela ma opposta dei repubblicani, dall’altra, nel caso di un felice esito dell’accordo Putin-Obama, può risultare perdente. Tale esito, infatti, favorirebbe invece un democratico di altro profilo, più vicino all’attuale Presidente. Ad esempio un Joe Biden, sempre se il vicepresidente degli Stati Uniti scioglie le riserve e si candida (cosa per la quale pare si stia spendendo anche Obama).
La corsa alla Casa Bianca è iniziata ben prima delle precedenti. In genere la vittoria di un candidato rispetto a un altro, salvo eccezioni, indica la vittoria di una prospettiva per gli Stati Uniti d’America (e per il mondo). Stavolta rischia di vincere la retrospettiva; ovvero, fuor di metafora, la prospettiva vincente oggi potrebbe determinare il futuro imperatore.