11 Aprile 2014

Il Venezuela, il petrolio e il neoliberismo

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Nicolas Maduro ha chiesto ufficialmente al Vaticano di inviare il segretario di Stato Pietro Parolin, ex nunzio a Caracas, come osservatore nei negoziati tra governo e opposizione. Al di là della risposta vaticana (che è complicata: più probabile che sia la Chiesa locale ad assolvere tale compito), resta che dopo due mesi di proteste si intravede il primo spiraglio di riconciliazione tra le parti, anche se tutto è ancora da vedere. Si è visto come anche in Ucraina, dove si è consumata una crisi parallela a quella venezuelana e per tanti versi analoga, diversi negoziati tra Yanukovich e le opposizioni sono stati annunciati per poi naufragare, lasciando il campo ai rapporti di forza.

Da due mesi il Venezuela è teatro di infiammate proteste; 39 le vittime, migliaia i feriti, devastazioni su larga scala. La narrazione ufficiale parla di manifestazioni all’insegna della richiesta di libertà civili e politiche e repressa con la forza. Uno schema che ricalca quello usato per l’Ucraina.

Ma per fortuna non esistono solo le narrazioni ufficiali. È il caso di un articolo apparso sul Guardian il 9 aprile, autore Suemas Milne. Milne prende spunto da quanto avvenuto negli ultimi anni, che hanno visto nascere vari movimenti di protesta, dalle primavere arabe alle proteste in Ucraina, per spiegare come, al di là delle sincere motivazioni dei manifestanti, le ribellioni possono essere «cavalcate» e strumentalizzate a fini estranei. Scrive Milne: «Fin dal rovesciamento del governo di Mossadeq in Iran, eletto nel 1950, quando la CIA e MI6 hanno pagato i manifestanti anti-governativi, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno messo in campo: sponsorizzazioni di “rivoluzioni colorate”, finanziamenti a ONG e formazione di studenti attivisti, alimentando le proteste tramite i social media, denunciando – o ignorando – le repressioni violente della polizia secondo la convenienza del momento».

Quindi analizza il caso Venezuela, ripercorrendo quanto avvenuto negli ultimi anni: «L’opposizione venezuelana di destra ha da lungo tempo un problema con le competizioni democratiche, dopo aver perso 18 delle 19 consultazioni popolari, tra elezioni o referendum, da quando Chavez è stato eletto la prima volta nel 1998 – in un processo elettorale descritto dall’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter come “il migliore del mondo “. Le loro speranze erano state resuscitate lo scorso aprile quando il candidato dell’opposizione ha perso solo di 1,5 % da Maduro. Ma nel mese di dicembre, alle elezioni politiche, la coalizione chavista ha guadagnato 10 punti di vantaggio». Così il mese successivo, «i leader dell’opposizione legati agli Usa – molti dei quali sono stati coinvolti nel colpo di Stato fallito contro Chavez nel 2002 – hanno lanciato una campagna per cacciare Maduro». Una rivolta favorita e infiammata da alcune condizioni favorevoli, quali «l’alta inflazione», «la criminalità violenta» che dilaga nel Paese e «la penuria di beni di prima necessità».

Anche sulle repressioni chaviste Milne offre una chiave di lettura diversa: «Le prove dimostrano che la maggior parte delle vittime sono state uccise dai sostenitori dell’opposizione: otto membri delle forze di sicurezza e tre motociclisti sono stati decapitati da un filo teso attraverso barricate di strada [i manifestanti venezuelani hanno inventato un nuovo sistema di protesta: tendere un cavo ad altezza uomo attraverso le strade, così da decapitare gli ignari motociclisti in transito ndr.]». Mentre il governo ha usato il pugno di ferro contro gli eccessi della repressione: Milne ricorda che diversi agenti di polizia sono stati arrestati per aver ucciso quattro dimostranti. 

«Quelle ritenute come pacifiche proteste, hanno tutte le caratteristiche di una ribellione anti-democratica», aggiunge Milne, accennando al ruolo degli Stati Uniti in questa ribellione. Il cronista britannico ricorda come Wikileaks abbia rivelato con una massiccia e indiscutibile documentazione l’ingerenza Usa nelle vicende interne venezuelane: finanziamenti ingenti ai gruppi di opposizione e manovre tese a «penetrare», «isolare» e «dividere» il governo» di Caracas. Operazioni più o meno segrete per mettere le mani sull’oro nero del Venezuela, che possiede le riserve petrolifere più ricche del mondo. Ma secondo Milne dietro questo interesse Usa per il Venezuela c’è anche altro e forse più importante.

Prendendo il controllo delle proprie risorse petrolifere, il governo di Caracas ha potuto ridistribuire ricchezze prima appannaggio delle grandi compagnie petrolifere. Le conquiste dello chavismo sono «indiscutibili» secondo l’articolo del Guardian, perché ha dimezzato la povertà, ha abbattuto del 70% la povertà estrema, ha dato case, allargato il servizio sanitario in maniera massiccia, istituito pensioni sociali e un salario minimo, ha creato «decine di migliaia di cooperative e imprese pubbliche e finanziato programmi di salute e di sviluppo in tutta l’America Latina e nei Caraibi». Un modello anche per altri Stati sudamericani, tanto che il Venezuela, secondo Milne, è stato fonte di ispirazione, nelle differenze, per altri Stati latinoamericani, una sorta di “guida” per questi Paesi, quasi tutti ormai appannaggio dei partiti di sinistra, diversi nello sviluppo ma affini nelle linee fondamentali di approccio ai problemi economici e sociali. Così il Guardian: «Il Venezuela e i suoi alleati progressisti in America Latina sono importanti per il resto del mondo non perché offrono un modello politico ed economico bello e pronto, ma perché hanno dimostrato che ci sono molte alternative economiche e sociali al sistema neoliberista fallito che attanaglia l’Occidente e i suoi alleati». Una sfida al sistema neoliberale portata proprio nel giardino di casa degli Stati Uniti, che di questo modello economico sono i più autorevoli propugnatori.

La morte di Chavez, continua il Guardian, aveva fatto sperare ai suoi tanti nemici, interni e internazionali, che fosse iniziata una marea di riflusso. E invece la larga vittoria di Maduro alle ultime elezioni, la vittoria di Michelle Bachelet in Cile e quella di Sánchez Ceren in Salvador indicano che la marea è ancora «fiorente».

«Potenti interessi, internazionali e nazionali, sono determinati a far sì che questo modello finisca, il che significa che ci saranno altre proteste in futuro», è la previsione di Milne. Difficile dargli torto, al di là del successo o meno dei negoziati in corso in Venezuela, che pure si spera riescano a trovare una via di uscita alla grave crisi in cui versa il Paese.

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