19 Giugno 2014

Israele: ansia e preghiere per i tre ragazzi rapiti

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Li cercano l’esercito, la polizia, i servizi segreti. E non li trovano. È passata una settimana ormai da quando tre ragazzi israeliani, Eyal Yifrach (19 anni), Gil-ad Shàer e Naftali Frankel (entrambi di 16 anni), l’ultimo dei quali cittadino americano, sono spariti nel nulla al ritorno dalla scuola rabbinica che frequentavano abitualmente. Un crimine oscuro, che ha gettato Israele nel più cupo sconforto. Dei tre, ad oggi, non si hanno notizie, né il sequestro è stato ancora rivendicato da alcuno, cosa non usuale. Le autorità assicurano che li ritroveranno, prima o poi, e setacciano Hebron con metodo e perseveranza, senza tralasciare alcun indizio. In genere, da queste parti certe promesse vengono mantenute, anche se il precedente del soldato Shalit, cinque anni di prigionia dopo esser stato rapito, non lascia tranquilli. Israele usa il pugno di ferro, la collera è tanta, e ad oggi sono state arrestate circa duecento persone, molte delle quali appartenenti al movimento di Hamas. Già, perché il governo israeliano è convinto che dietro il crimine ci sia la mano di Hamas, nonostante l’organizzazione palestinese abbia replicato che tali accuse sono semplicemente folli. D’altronde sono anni che tra Israele e Hamas non c’è possibilità di dialogo, non poteva essere questa l’occasione per iniziare.

Sembrano passati secoli ed era ieri da quando, era la Pentecoste cristiana, il presidente israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen si sono ritrovati in Vaticano a pregare insieme per la pace in Terrasanta. Secoli da quando quel gesto aveva dato la più alta benedizione al governo di unità nazionale Hamas – Fatah, incoraggiato dagli Usa e da mezzo mondo, nella speranza che questa ritrovata unità palestinese potesse favorire un nuovo inizio nel dialogo israelo-palestinese. Il governo di Netanyahu aveva reagito duramente alla ritrovata unità palestinese, reputando Hamas organizzazione terroristica del tutto inaffidabile. Ma Peres non era il solo ebreo a credere in quell’accordo, tanto che, nonostante le scontate difficoltà, sembrava si fossero aperti spiragli.

Ma ciò accadeva, appunto, secoli fa, perché il rapimento dei tre studenti sembra aver seppellito, forse per lungo tempo, questa possibilità. Chi ha pianificato questo sequestro «vuole distruggerci», ha detto Abu Mazen. Ed è difficile dargli torto.

È possibile che Hamas abbia voluto chiudere con questo rapimento un processo di riconciliazione nel quale aveva impegnato tutta la sua autorevolezza? Tale è la convinzione del governo israeliano, che reputa Hamas capace di queste e altre doppiezze. Eppure all’indomani dell’accordo tra le due fazioni palestinesi, Abu Mazen si era spinto a dire ai giornali israeliani che il nuovo governo di unità nazionale avrebbe riconosciuto Israele e onorato tutti gli impegni di Oslo. E Hamas non lo aveva smentito, confermando con un silenzio che è suonato di assenso.

E se invece il crimine non fosse stato ordito da Hamas nel suo insieme, ma da una sua fazione interna, contraria all’accordo, con l’intenzione di farlo saltare? D’altronde questa organizzazione non è mai stata un monolite, oltre a contare tra le sue fila infiltrati di varia natura; o forse, altra possibilità  più o meno alternativa, è quella che da giorni rimbalza sui media: la pista salafita, ovvero quei gruppi integralisti islamici che da tempo convivono con Hamas nella Striscia di Gaza in un rapporto ambiguo e spesso conflittuale, legati a doppio filo con i gruppi terroristi che stanno portando il terrore nella vicina Siria e altrove. Sono solo ipotesi e magari i mandanti si nascondono altrove, nelle mille pieghe di un mondo articolato e complesso come quello mediorientale. Ma oggi, più che risposte certe – verranno, forse, nel tempo – è più importante ritrovare quei ragazzi risucchiati nel buio di un conflitto che sembra auto-alimentarsi per meccanismo spontaneo.

L’oscura vicenda, confermando le diffidenze di Netanyahu, ne rafforza la posizione, dopo che il suo prestigio era stato scalfito dall’onta di vedere eletto Presidente della Repubblica un suo acerrimo nemico, benché appartenente al suo stesso partito. Ora il premier israeliano ha la forza necessaria ad agire, ma deve sperare, con tutta Israele, che la cosa si risolva presto e bene. Un compito non facile. Di certo il crimine è stato compiuto da professionisti, stante che sono riusciti ad agire indisturbati nonostante la capillare vigilanza dell’esercito e dei servizi segreti israeliani sui territori occupati (la Stampa del 16 giugno riportava la dichiarazione di Hanan Ashrawi, consigliere di Abu Mazen, il quale ha fatto notare che il sequestro è avvenuto nella West Bank, controllata da Israele). I ragazzi, tra l’altro, erano anche riusciti a fare una telefonata d’allarme, ma il funzionario di polizia che l’ha ricevuta ha pensato che fosse uno scherzo… Ad agire probabilmente è stata una cellula terroristica ben addestrata, pochi elementi e senza contatti esterni, in grado cioè di gestire in autonomia e nella massima segretezza il sequestro. Una cellula che le autorità israeliane ritengono sia ancora nascosta nel segreto di Hebron. Speriamo non siano caduti in errore e non consentano, concentrando le ricerche in questa città, che i criminali trovino rifugio in altre zone d’ombra delle quali è pieno il Medio Oriente.

In Israele, e non solo, si prega e si spera. Oggi, analogamente a quanto accadde per le studentesse nigeriane rapite dai terroristi salafiti del Boko Haram ad aprile – evidentemente l’azione ha fatto scuola nel network del terrore – risuona in varie parti del mondo la richiesta, che è anche una supplica: bring back our boys, riportate indietro i nostri ragazzi. Un cuore di tenebra ha inghiottito tre vite fanciulle. Un cuore di tenebra che ancora una volta ha vanificato speranze. Non solo quelle dei tre ragazzi rapiti, ché il loro destino è ora legato al destino di un intero Paese e forse di un’intera regione del mondo, che un oscuro disegno rischia di far precipitare in un nuovo aperto conflitto. Ma la Terrasanta è luogo di miracoli. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio che ama visceralmente – con viscere di misericordia – i suoi poveri figli, Lui può vincere questa tenebra. Così che le preghiere che in questi giorni rimbalzano da un angolo all’altro di Gerusalemme suonano a conforto e speranza. Più di altre iniziative umane, pur necessarie.

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