23 Maggio 2014

La morte di Falcone e la strategia della tensione di stampo mafioso

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Era il 23 maggio del 1992 quando una bomba fece strage a Capaci, uccidendo Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta e trasformando quell’angolo della Sicilia in qualcosa che assomigliava a Beirut. Già, perché la mafia aveva ucciso, e tanto, in precedenza, ma quello, di attentato, appariva qualcosa di nuovo rispetto a quanto successo in precedenza. Un attentato a un magistrato che la mafia riteneva un pericolo, ma insieme qualcosa di più oscuro. Le immagini rimandate da tutti i Tg non sembravano appartenere a uno scenario di criminalità locale, ma a qualcosa che rimandava ad altro, un po’ quel che successe con la strage di Piazza Fontana. Così ricorriamo al memoriale di Aldo Moro, al passo nel quale lo statista ucciso dalla brigate rosse ricordava quell’evento lontano, che il 23 maggio si ripeteva a Capaci: «Proprio sul finire della seduta mattutina ci venne tra le mani il terribile comunicato di agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualche cosa di inaudita gravità stesse maturando nel nostro Paese».

Già, qualcosa stava maturando anche allora: era il periodo di tangentopoli e la classe politica italiana, corrotta più o meno come altre nel mondo, cadeva sotto le inchieste della magistratura, liberando il campo a una nuova classe emergente, di destra e di sinistra, non all’altezza della precedente e più gestibile (e forse anche più corrotta). In particolare l’attentato fu perpetrato a ridosso dell’elezione del presidente della Repubblica, che appariva più importante di altre. Sotto le bombe la pratica fu chiusa d’urgenza, bypassando le usuali contrattazioni che accompagnano doverosamente la scelta dell’uomo che dovrebbe garantire le istituzioni italiane, e fu eletto Oscar Luigi Scalfaro.

Quelle bombe misero sotto gli occhi del Paese l’emergenza mafia, dando vita a una stagione di impegno molto forte in questo senso, anche se di fatto le uniche risultanze, più o meno riscontrate poi in sede processuale, furono dovute alle dichiarazioni di centinaia di pentiti (fenomenologia singolare quella del pentitismo di inizi anni ’90: nella storia della mafia non si è mai avuta né prima né dopo una stagione simile). Passata l’emergenza, ora la mafia è sparita, almeno questo è quel che sembra, dal momento che non ne parla più nessuno…

Ci sono state indagini sulla strage di Capaci, ma sono affidate, come altre, alle dichiarazioni di pentiti, che possono orientare indagini e processi. È quanto accaduto per esempio nel processo per la strage del magistrato amico di Falcone, Paolo Borsellino, fatto saltare in aria a Palermo in via d’Amelio, dove le indagini, coordinate all’inizio dalla Bocassini, furono poi deviate da un pentito di nome Scarantino, uno dei tanti millantatori del novero. Proprio l’indagine su questo depistaggio, aperta solo dieci anni dopo l’attentato, ha portato un po’ di luce su quanto si era consumato in Italia in quei giorni tempestosi: parte dello Stato si era accordato con la mafia per “qualcosa”. L’inchiesta svolta da magistrati coraggiosi, tra i quali spicca Nino di Matteo, indica che questo “qualcosa” sarebbe stato la fine del carcere duro per i mafiosi in cambio della cessazione della strategia della tensione di stampo mafioso. Una boutade, certo, ché è ovvio che c’era in ballo molto di più di un’ora d’aria, ma almeno si è potuto indagare su quell’accordo, riscontrando documenti, trovando testimonianze e quanto altro. Purtroppo l’inchiesta è stata flagellata dalla sfortuna: il teste chiave è stato oggetto di diverse inchieste parallele; uno dei magistrati, tal Ingroia, ha pensato bene di far naufragare un’indagine che avrebbe potuto fatto luce su una pagina oscura della storia d’Italia nelle secche di una sterile, quanto fuorviante, polemica con il Quirinale; politici e opinionisti più o meno importanti hanno sminuito il lavoro dei magistrati, tra l’altro più volte minacciati di morte.

Ora quell’inchiesta è finita del dimenticatoio, come avevamo preannunciato in note precedenti, e le sue conclusioni, ché prima o poi dovrà pur concludersi, saranno probabilmente vaghe e aleatorie (anche se spes ultima dea). Su quanto accaduto allora torna l’oblio. Una nebbia fitta sembra aver oscurato quel faro che qualcuno aveva acceso. Una conclusione infelice che fa presumere che quella strategia, quell’accordo sottotraccia avvenuto allora, sia un vaso di pandora che tanti temono di scoperchiare. Forse perché tanti protagonisti e comprimari di quell’oscura stagione sono ancora in servizio attivo, occupano posti importanti e delicati.

Dietro la strategia della tensione degli anni ’70, ormai è storia acclarata, c’era anche il lavoro di agenti deviati, come agenti deviati sembra siano stati dietro le stragi del ’92-’93. Pezzi di apparato, ambiti metapolitici forti e occulti che ancora contano in Italia (e non solo). Tanto da poter godere di una sorta di impunità, come evidenziato dalle sorti dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Così veniamo all’attualità. Questa vicenda conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i poteri oscuri che sottotraccia condizionano, anche in maniera criminale, le sorti del Belpaese durano tempo. Uno dei referenti di tali poteri oscuri ha parlato pubblicamente. L’uomo in questione è l’attivo Licio Gelli e ha parlato al Fatto Quotidiano. Critico con Matteo Renzi e Denis Verdini – cosa scontata altrimenti avrebbe avallato le accuse di collusioni con questi personaggi che tanti hanno asserito in questi giorni – ha invece detto qualcosa di interessante: «Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica [si noti anche la lezioni di moralità pubblica ndr. ] probabilmente solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia».

Ieri chiudevamo le nostre Postille con queste parole: «Resta che siamo in un periodo fluido e denso di incognite. E anche di pericoli». Nulla da aggiungere.

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