25 Luglio 2015

La Turchia, tra nuova assertività e vecchie ambiguità

La Turchia, tra nuova assertività e vecchie ambiguità
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«Finora Ankara era stata di fatto uno sponsor del Califfato: attraverso la Turchia l’Is riceveva armi e medicine, e riusciva al tempo stesso a esportare il suo petrolio». Così Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum e una delle menti più lucide dei neocon Usa, intervistato da Arturo Zampiglione per la Repubblica del 24 luglio. Pipes dice qualcosa che sapevano tutti (e ai suoi ricordi andrebbe aggiunto anche altro, come il fatto che il territorio turco era luogo di reclutamento dei miliziani e via dicendo). Insomma uno sponsor del terrorismo internazionale, come spiega Pipes, che ha agito impunemente e liberamente per anni, nella piena consapevolezza dei Paesi Nato.

 

Ma questo è il passato. In questi giorni la Turchia ha cambiato strategia e ha dichiarato guerra all’Isis. A dimostrazione che fa sul serio, l’inizio di azioni militari in territorio siriano e l’arresto di alcuni terroristi in patria. Oltre a ciò ha concesso agli americani l’uso della base aerea di Incirlik, finora negata, che Washington considera strategica per un’efficace azione di contrasto al Califfato.

 

Molti analisti hanno individuato la genesi di questo cambio di strategia nell’attentato di Suruc, nel quale una kamikaze dell’Isis si è fatta esplodere uccidendo una trentina di giovani curdi che stavano organizzando una missione tesa alla ricostruzione di Kobane, la città siriana al confine turco simbolo della resistenza al Califfato. L’attentato ha creato un clima teso in Turchia: al governo è stata rimproverata l’acquiescenza verso i terroristi islamici e ha riaperto la frattura con i curdi, il cui successo elettorale nelle recenti elezioni (il loro partito ha tolto all’Akp, partito islamico al potere, la maggioranza assoluta) ha mandato all’aria i piani di Tayyp Erdogan di ridisegnare la Costituzione.

 

In realtà è più probabile che alla base di questo cambiamento di strategia di Ankara ci sia altro, ovvero l’accordo sul nucleare iraniano tra Usa e Iran, che sta determinando un terremoto geopolitico in tutto il Medio Oriente. Un accordo che ha rafforzato Assad, da sempre legato a Teheran, e ha aperto nuove possibilità di dialogo in vista di un accordo globale sulla Siria. Una prospettiva che potrebbe aver determinato la nuova assertività turca: ridimensionata la speranza di un cambio di regime a Damasco per via terroristica, Ankara si riposiziona con una strategia che sviluppa due direttrici: da una parte potrebbe consentirgli di entrare finalmente con le sue truppe in territorio siriano (idea da tempo in cantiere) per prendere il controllo di un’area di confine che comprende la (ex) ricca città di Aleppo; dall’altra di entrare con forza nella partita negoziale che potrebbe aprirsi sul destino di Damasco.

 

Una strategia che conserva quindi tante ambiguità, anzi le moltiplica. Tra queste anche quella che vede innescarsi un confronto più serrato con i curdi, gettando alle ortiche il simulacro della trattativa con il Pkk, il partito dei lavoratori curdi, del recente passato. Il successo del partito curdo alle ultime elezioni e la prospettiva della nascita di uno Stato curdo ai suoi confini per Erdogan e i suoi sono un incubo. Anche per questo i bombardieri di Ankara hanno colpito obiettivi curdi in Iraq e Siria, nonostante questi siano stati finora gli unici veri oppositori, insieme al governo di Damasco, dell’Isis (la coalizione internazionale anti-Isis messa su dagli Stati Uniti finora ha fatto pochino, per usare un eufemismo).

 

Così, oltre al target Isis, Ankara ha messo nuovamente nel mirino i curdi, anche a seguito dell’uccisione di due poliziotti da parte del Pkk, compiuta, questa la rivendicazione, come ritorsione per la strage di Soruc, della quale i curdi accusano il governo e non l’Isis.

 

Una tensione che sembra destinata ad aumentare. Riportiamo a questo proposito una parte dell’intervista che uno dei più autorevoli giornalisti turchi, Cegiz Çandar, ha rilasciato a Marco Ansando per la Repubblica del 24 luglio: «Il successo delle elezioni del partito di Selahattin Demirtas [il leader del partito curdo ndr.] è costato a Tayyp Erdogan il sogno di una Presidenza esecutiva e del partito singolo al potere. Se ci dovesse essere ancora un nuovo voto [l’Akp ha vinto le elezioni ma non riesce a formare un governo da circa un mese ndr.], Erdogan e la sua compagine aumenterebbero la tensione con il partito curdo per convincere l’opinione pubblica che quei circoli curdi beneficiano della violenza. Anche questa è una politica rischiosa e costosa, perché con una polarizzazione del genere è impossibile riuscire a raggiungere qualsiasi riconciliazione con i curdi».

 

Insomma, tante variabili in questa nuova strategia turca, nella quale si intrecciano nuove assertività e vecchie ambiguità. Che tante conseguenze avrà in Iraq e soprattutto in Siria, che rischia di cessare di esistere come Stato sovrano per fratturarsi in tre aree diverse, un progetto che i neocon in passato sussurravano nel segreto, oggi proclamano apertis verbis: «Temo che per la Siria l’unica possibilità rimasta sia la divisione in tre: al centro del paese uno Stato sciita; da una parte e dall’altra uno stato sunnita; e a Nord e a Est uno stato curdo». Ancora Daniel Pipes per la Repubblica.

 

Nella foto, i ragazzi di Soruc

 

 

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