12 Giugno 2014

L'Isis e le guerre neocon che hanno prodotto mostri

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Cade Mosul, cade Tikrit. Una valanga di terrore dilaga nell’Iraq, affondando nei suoi miasmi territori già martoriati da anni di guerra e paura e proiettando ombre oscure all’intorno. L’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, è ora una realtà geografica consolidata oltre che ideale jihadista. Qualcosa di nuovo sta avvenendo nel mondo, qualcosa di oscuro, che minaccia di alimentare ancora di più, semmai ce ne fosse bisogno, lo scontro di civiltà che lo infiamma da tredici anni, tanto lontano oramai l’11 settembre 2001 e l’attentato alle Torri. Analisti più disparati spiegano che ora è diverso, ora che Osama Bin Laden è morto e che la verticistica Al Qaeda è stata sostituita da un conglomerato di reti terroristiche locali di stampo jihadista, o salafita che dir si voglia, in perenne conflitto tra loro, ma convergenti lo stesso nell’allargare gli orizzonti del caos. Così che è diverso ma uguale alla fine.

Eppure il mostro che è emerso nell’Iraq ferito era qualcosa di prevedibile, se si sta a quanto avvenuto in questi anni. L’Isis nasce proprio nel caos prodotto dalla guerra irachena, scatenata dagli Usa e i suoi alleati per scongiurare il pericolo derivante dalle armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein (follia o pretesto, come fu evidente nel tempo, perché quelle armi non si trovarono mai). La guerra sprofonda il Paese nel caos, com’era scontato, e dal caos ebbe inizio lo scontro infinito tra sciiti e sunniti, scandito da attentati sempre più sanguinosi. Nel frattempo si allarga di presso la piaga siriana, dove imperversano orde di mercenari pagati per spodestare Assad. Mercenari divisi per bande, in guerra contro Damasco e tra loro. Tra queste spicca presto, appunto, l’Isis, che con le sue basi di là del confine, e quindi inviolabili, permette ai suoi armati rifornimento costante.

Così che Sergio Romano, in un editoriale del Corriere della Sera del 12 giugno, può scrivere: «Non saremmo a questo punto se la rivolta contro il regime siriano di Bechar al Assad non avesse chiamato in Siria una legione islamista molto più numerosa e agguerrita delle cellule di Al Qaeda che operavano nella regione dieci anni fa. Ma un nucleo importante si è addestrato probabilmente nelle montagne dell’Afganistan, dove la guerra americana, combattuta per tredici anni, non è riuscita a impedire il ritorno dei talebani; mentre altri provengono dal Pakistan, ambiguo alleato degli Stati Uniti, o addirittura dalla Libia […] dove gli americani, sollecitati dalla Francia e dalla Gran Bretagna, hanno abbattuto il regime di Gheddafi per lasciarsi alle spalle un Paese distrutto e ingovernabile, devastato da una guerra civile fra milizie tribali e islamiste».

Insomma le guerre neocon di questo decennio hanno partorito mostri, tanto che Romano può concludere: «I neo conservatori dicevano di voler cambiare la carta del Medio Oriente: un obiettivo, purtroppo, raggiunto».

 

Ma torniamo alla Siria. Assad ha in parte vinto la sua guerra e di recente anche le elezioni, consolidando il proprio potere. «Elezioni farsa», hanno commentato con disgusto le cancellerie occidentali, perché tra i candidati c’era Assad che invece avrebbe dovuto sparire da tempo. Eppure per tanti quelle elezioni hanno detto qualcosa: che il popolo, nonostante i limiti del regime, sta con chi li difende dai tagliagole scatenati sul loro suolo dall’Occidente, dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo (dove tra l’altro le elezioni non sono di moda). Tra i tanti commenti in tal senso, spicca quello del presule Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo – che vede le cose da vicino e non è certo un fan del regime -, che ha dichiarato: «Credo che per il popolo siriano in generale sia una elezione legittima e la Siria ha il diritto di difendersi» (Avvenire, 10 giugno).

E proprio dopo queste elezioni che sembravano aver fornito a Damasco un nuovo respiro, l’Isis rilancia e dilaga. Tanto che Ian Bremmer, presidente del think thank Eurasia Group, intervistato sul Corriere della Sera dell’11 giugno, può dire che il nuovo Califfato «innanzitutto garantirà una situazione di guerra civile continua in Siria, anche dopo che Assad si è trincerato e consolidato il suo dominio».

Non solo, con la sua assertività, l’Isis lancia la sua sfida a tutti i Paesi confinanti, dal Libano alla Giordania. Ma soprattutto all’Iran sciita: già al tempo – allora Saddam era l’uomo più vicino agli Usa in zona – l’Iraq scatenò una guerra contro l’Iran, ricacciandolo per oltre un decennio ai margini dello scenario mondiale e stringendo il suo popolo attorno ai suoi leader, i religiosi che avevano preso il potere con la rivoluzione khomeinista. Una nuova sfida per l’Iran, che giunge tra l’altro proprio mentre a Ginevra si stanno svolgendo i negoziati sul nucleare che potrebbero portare a un nuovo futuro per il Paese e per l’intero Medio oriente. Anche per questo, per contrastare il nuovo pericolo occorre coinvolgere l’Iran, come accenna anche Romano nel suo editoriale.

Tante incognite, una certezza: le guerre costano e tanto. Per dilagare in questo modo l’Isis è pieno di soldi. Dietro il salafismo c’è il traffico di droga, di esseri umani e tanti altri traffici fioriti sulle rovine delle guerre neocon, fiori del male per dirla con Baudelaire. Ma ci sono anche soldi meno sporchi (forse). E tanti. Quelli che sono arrivati e arrivano alle legioni anti-Assad – per mille rivoli – dalla Turchia, dalle monarchie del Golfo, dagli Usa e dall’Europa. Finanziamenti che giungono a quanti, in un futuro sempre più possibile, si renderanno protagonisti di attentati terroristici in Occidente. I cani si possono tenere al guinzaglio, i mostri no.

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