28 Marzo 2014

Obama e Francesco

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Obama si incontra con il Papa (anche con Renzi, ma non è venuto in Italia per questo). Cinquanta minuti di incontro, che ovviamente si è svolto in un clima di grande cordialità e, a parte le questioni aborto e contraccezione sulle quali sono rimaste ovvie distanze, è andato bene, come hanno spiegato le relative fonti diplomatiche.

Ma per capire cosa ha detto Obama al Papa basta leggere un’intervista al Corriere della Sera, rilasciata a Massimo Gaggi il giorno precedente, nella quale il presidente degli Stati Uniti ha inteso presentarsi al Papa e alla Chiesa e lo ha fatto ritornando al passato, ovvero a quell’Obama che ha suscitato speranze nel mondo attirandosi il premio nobel – preventivo – per la pace. Così ha speso parole di elogio per il Santo Padre, spiegando come la sollecitudine della Chiesa per i poveri, rilanciata in maniera stupenda sotto il suo Pontificato, è un’opportunità per il mondo e un aiuto per i governanti a operare per ridurre le disuguaglianze sociali e a lottare contro la povertà. «Lui ci implora a ricordarci della gente, soprattutto della povera gente, la cui vita è condizionata dalle decisioni che prendiamo». È un passaggio significativo dell’intervista. Non sono parole di circostanza: in tempi non sospetti, ovvero subito dopo l’elezione di Bergoglio, si felicitò che la Chiesa avesse scelto un pastore che avrebbe dato voce agli ultimi. Certo suona alquanto velleitario l’obbiettivo di «sradicare la povertà estrema entro i prossimi vent’anni» dichiarato nell’intervista, soprattutto perché non è la prima volta che leader internazionali enunciano la scadenza ventennale della povertà, purtroppo sempre prorogata. Ma occorre pure consentire concessioni alla retorica.

Ancora più significativo è il passaggio nel quale il Presidente degli Stati Uniti ha spiegato l’impronta di fondo della sua amministrazione: «Come presidente, una delle cose che ho fatto è stata quella riorientare la leadership americana. Abbiamo concluso la guerra in Iraq e concluderemo la guerra in Afghanistan alla fine di questo anno. Man mano che ci allontaniamo dallo sfondo dominato dai conflitti militari, ho posto una rinnovata enfasi sulla diplomazia. Credo lo si veda da un ampio ventaglio di iniziative, compreso il nostro negoziato sul programma nucleare iraniano e lo sforzo di creare le condizioni per una pace durevole in Terra Santa tra israeliani e palestinesi».

Interessante anche che non abbia quasi fatto cenno alla crisi dell’Ucraina o alla Russia, argomenti che sono al centro dell’agenda internazionale e che vedono un nuovo confronto tra le due potenze nucleari. Infatti sulla vicenda ucraina ha solo accennato al fatto che Europa e Usa lavorano unite per «affrontare la grave situazione che si è creata in Ucraina». Nessuna ripresa delle forti critiche che in questi giorni lui stesso ha mosso a Putin o alle minacce di gravi reazioni alle iniziative russe. Due pagine di intervista, solo questo breve cenno, che rivela una certa prudenza nel parlare della questione. Forse non si tratta di un ripensamento, ma magari di un riorientamento, per usare sue parole, che palesa la volontà di trovare un accordo con la Russia e forse nasconde trattative sottotraccia per giungere a una de-escalation. 

Certo, non è mancata la rivendicazione della guerra libica come un intervento giusto che ha risparmiato milioni di vite, in realtà un grave errore di politica internazionale nel quale peraltro Obama ha subito il ruolo assertivo dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton e del Presidente Francese Sarkozy. Anche sulla Siria si è mantenuto prudente, spiegando che gli Stati Uniti lavorano «per alleviare le sofferenze del popolo siriano»; e, più in là, che «la guerra civile siriana e la morte di tanti innocenti, donne e bambini, è un’enorme tragedia. Gli Stati Uniti sono impegnati con molta energia nello sforzo diplomatico per cercare di porre fine ai combattimenti, promuovendo una transizione nella quale i diritti del popolo siriano vengano rispettati». Sono formule standard, ma che denotano accenti diversi rispetto ai proclami contro Assad o al sostegno incondizionato ai cosiddetti ribelli siriani (peraltro le milizie anti-Assad in realtà sono sostenute, eccome, dagli Stati Uniti). Comunque parole diplomatiche e non infiammate appunto, con toni e i concetti ben diversi da altri usati in passato. 

Un Barak Obama in veste diplomatica e pacificante, come accennato all’inizio, quello che aveva suscitato speranze nel mondo dopo le guerre del decennio neocon. È un’intervista, certo, e come tale lascia il tempo che trova, ma anche le parole hanno un peso nel governo del mondo. E Obama ha usato parole scevre da volontà di potenza.

In altra parte dell’intervista ha poi accennato all’urgenza di realizzare il Transatlantic Trade and Investiment Partnership (Ttip), in parole povere – e italiane – la creazione di un’area di libero scambio tra Usa ed Europa che, almeno nei progetti dei promotori, rilancerebbe l’economia Occidentale nel mondo (contenendo, tra l’altro, la sfida portata dalla crescita economica cinese). È un nuovo modello di riorganizzazione mondiale che va a ridisegnare l’economia e la geopolitica del pianeta. Ne abbiamo scritto, ci torneremo.

Sull’Osservatore romano il colloquio è stato riportato con consueta stringatezza. Una nota succinta che riporta le convergenze sulla giustizia e sulla pace, ma in bella evidenza, con tanto di foto in prima pagina a sottolineare l’importanza dell’evento. Interessante il dono del Presidente degli Stati Uniti al Pontefice: dei semi provenienti dal giardino della Casa Bianca «contenuti in un’elegante cassa blu, realizzata con legno della Basilica dell’Assunzione, la cui pietra d’angolo fu posta dal gesuita John Carrol, primo vescovo cattolico del Paese». Con questo dono, Obama ha voluto ricordare al Papa che il primo vescovo Usa fu proprio un gesuita: un modo per sottolineare i legami tra Francesco e l’altra sponda dell’Atlantico.

Certo siamo molto lontani al dono che recò Putin nella sua recente visita in Vaticano, ovvero l’icona della Madonna di Vladimir (che Stalin fece caricare su un aereo perché sorvolasse i cieli di Mosca per proteggerla dall’invasione nazista), né si è ripetuta la scena di un potente della terra che bacia, insieme al Papa, l’icona della Madonna. Ma va bene lo stesso.

Altra differenza rispetto alla visita del capo di Stato russo il fatto che il Vaticano è riuscito a contenersi e non si è ripetuto l’errore diplomatico fatto allora quando, lo stesso giorno dell’incontro, si rese pubblica l’Evangelii Gaudium cancellando di fatto la notizia della visita di Putin dai giornali.

Sicuramente Obama teneva molto all’incontro con il Papa. E non solo per ottenere una photo opportunity. Né per lucrare vantaggi elettorali, ché siamo al suo secondo mandato dopo il quale andrà in pensione. E forse anche i toni pacati usati nell’intervista al Corriere della Sera nella sua intenzione erano un modo di spiegare al Papa, e al mondo, che l’Obama diplomatico e dialogante è ancora vivo e non è stato seppellito dai venti neocon che in questi ultimi giorni soffiano forte sulla Casa Bianca. Almeno questa è la speranza.

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