Paolo VI beato
Tempo di lettura: 4 minutiLa beatificazione di Paolo VI era in qualche modo un passo obbligato dopo quella di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Manca Luciani, forse, magari Pio XII, e poi speriamo che inizi una moratoria sulla beatificazione dei sommi pontefici, ché sembra che questo sia l’unico secolo di papi santi, al contrario di quel che accadeva in passato.
Forse la reiterata beatificazione di tanti Pontefici può segnalare un fenomeno nuovo nel cristianesimo, ovvero la mutata la percezione del ruolo del Pontefice nell’ambito della Chiesa, cosa che si presta a derive infelici (papolatria). E sembra ormai appartenere al passato il tempo in cui un illustre sconosciuto di nome Francesco, riconosciuto santo, rimetteva a posto le cose della Chiesa sotto lo sguardo stupito del papa di allora, oggi ignoto ai più a differenza del santo assisiate.
In ogni caso, e al di là di considerazioni più generali, non può che fare piacere la beatificazione di Paolo VI. Oggi ne parlano un po’ tutti, descrivendo il suo carisma, la sua visione della Chiesa, la sua spiritualità, la sua apertura al mondo e alla modernità e via dicendo. Quando su Montini per decenni era scesa l’ombra di un oblio che lo relegava alla marginalità della storia della Chiesa, don Luigi Giussani, si era alla fine degli anni ’90, ebbe a fare un accenno stupendo; parlandone in pubblico lo appellò così: «il nostro Paolo VI», espressione che vibrava drammatica storia. Piace ricordarlo, come piace ricordare che anche la rivista 30giorni andava allora in controtendenza, riproponendo scritti e ricordi del Papa dimenticato.
Di Paolo VI, un gigante del ‘900, piacerebbe scrivere a distesa, ma è meglio forse esercitare una sana sintesi. Piace anzitutto ricordare una cosa che pochi hanno osato rammentare («un po’ come si tace un’onta» per usare una frase poetica di Rilke), ovvero che se Paolo VI ha rappresentato così tanto per il mondo, non solo cattolico, è anche per il rapporto fecondo che ebbe con la Democrazia cristiana, la quale per decenni, pur conservando una sana laicità, lo ebbe come autorevole punto di riferimento. In particolare, e soprattutto, la Dc di La Pira, Moro e Andreotti, questi ultimi due a guida della Fuci quando monsignor Montini ne era l’assistente spirituale, Un legame tanto profondo che Paolo VI ebbe a morire poco dopo la morte di Moro, in quel terribile ’78. Erano altri tempi, oggi non riproponibili, che però appare doveroso ricordare.
Non che Montini fosse un Papa “politico”, anzi (anche se ebbe a dire che la politica è la più alta forma di carità), ma la sua enciclica Populorum progressio lo era, almeno di quella Politica con la P maiuscola che riguarda la sorte dei poveri e degli oppressi la quale appartiene alla carità che la Chiesa è chiamata a esercitare verso gli ultimi, allora come ora. Ma sulle similitudini tra Paolo VI e Francesco non ci dilungheremo (né sulle differenze tra il Papa della tradizione ambrosiana e quello della Chiesa latinoamericana); del caso, chi vuole, può rileggersi quanto scritto da Piccolenote all’indomani dell’elezione del nuovo vescovo di Roma.
Piace invece accennare come la prima enciclica che Montini ebbe a scrivere fu la Ecclesiam suam, che nel titolo sintetizzava tutto il rapporto tra la Chiesa e il suo Signore. Una considerazione banale che la Chiesa sia del Signore, ovvia, e però si è visto nei decenni successivi quali tragiche distorsioni ha portato nella Chiesa l’appannamento di questa evidenza: non tanto il tragico corollario di deriva morale, anche ai tempi dei Borgia era l’abisso, quanto soprattutto le ambiguità, se non l’obliterazione, riguardo la necessità della grazia soprannaturale per il retto agire umano («Senza di me non potete far nulla» è la considerazione ineludibile di Gesù).
L’ultima enciclica uscita dalla sua penna, l’Humanae vitae, è forse quella meno montiniana: c’era da recepire le riflessioni sulla sessualità, sul matrimonio e altro proprie del Concilio. E Paolo VI lo fece cercando aiuto da esperti e commissioni, anche se sua fu l’ultima parola. L’enciclica fu pubblicata nel luglio del 1968, dopo lunga e non facile elaborazione. Fu contestata e tanto. Ma fu preceduta di alcuni giorni da un documento di diversa natura, un atto unico della storia della Chiesa, nella storia della Chiesa: la proclamazione del Credo del Popolo di Dio.
Il 30 giugno del 1968, nella solennità dei santi Pietro e Paolo, al termine dell’Anno della Fede, da lui solennemente indetto, volle proclamare nella maniera più solenne davanti a tutti i fedeli e al mondo intero la fede del Signore.
Da allora, tranne appunto l’Humanae vitae che in fondo era atto dovuto e già redatto, non scrisse più encicliche. Come se tutto quel che doveva dire l’avesse detto nel Credo del Popolo di Dio. La fede come realtà diffusa nella società andava a sparire, aveva intuito Montini, lasciando il posto a una società scristianizzata; ma erano anche il dogma e il tesoro della Tradizione a essere incalzati, non solo dalla contestazione che veniva dalla società secolarizzata, ma anche in ambito cattolico. Con contestazioni evidenti e pubbliche da parte di ambiti di sinistra, con derive più subdole e pericolose da parte di ambienti di destra (si veda l’accenno allo gnosticismo di don Luigi Giussani in un dialogo riportato da 30giorni).
Montini aveva capito che la Chiesa aveva bisogno di tornare all’essenziale per poter sperare di ottenere dal Signore la grazia di un nuovo inizio; tornare alle povere cose che sono a fondamento della fede cristiana, all’umile riconoscimento del Signore; così che, partecipando per grazia della Sua bontà, anche il cuore dei fedeli può diventare buono, partecipare della Sua carità e della Sua misericordia.
Un’intuizione felice, quella del «nostro Paolo VI», e ancora di attualità.
Nell’omelia della messa per la beatificazione di Paolo VI (alla quale rimandiamo), celebrata in occasione della chiusura del Sinodo straordinario sulla famiglia, Francesco ha ricordato la figura di Montini. Riportiamo un cenno particolarmente felice del Papa: «Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: “Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva” (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante – e talvolta in solitudine – il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore
».