18 Ottobre 2013

Stato-mafia, Napolitano sarà testimone Cancellieri: inusuale, sono perplessa

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Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato chiamato a deporre in qualità di teste nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Dovrà riferire sulle considerazioni del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio che, prima di morire, aveva inviato al Capo dello Stato una missiva nella quale si parlava di «indicibili accordi» tra istituzioni e boss per porre fine alla stagione delle stragi di mafia.

Una decisione grave, quella della procura di Palermo, che ha suscitato reazioni. Anzitutto perché, di fatto, devia la linea investigativa dal cuore della vicenda, sulla scia di quanto fece il pm Ingroia che ingaggiò un personale duello con il Capo dello Stato: a lungo, invece di parlare dell’omicidio Borsellino e di quanto avvenne all’intorno di quella trattativa, si parlò di Quirinale e dintorni. Un effetto depistante che non ha giovato a comprendere i contorni della vicenda né all’efficacia delle indagini.

In secondo luogo, la decisione appare un vulnus all’autorità del Presidente della Repubblica dal momento che sembra sia stata accolta le tesi accusatoria di Ingroia che in qualche modo adombrava sospetti di “copertura” da parte del Quirinale nei confronti dei principali indagati, in particolare l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.

Ma c’è anche un altro aspetto inquietante in questa decisione: in questo momento di grave instabilità, Napolitano appare un punto saldo del sistema Italia sia per quanto riguarda la durissima dialettica interna sia nei confronti della comunità internazionale che ha nel Capo dello Stato, e non in altri, un interlocutore privilegiato. Un Presidente della Repubblica messo alla sbarra, incalzato dalle domande dei magistrati, non è certo un bello spettacolo da offrire al mondo.

Senza considerare, infine, che la convocazione di Palermo giunge dopo i reiterati appelli rivolti da Berlusconi  al Quirinale per porre fine a quella che lui definisce una persecuzione giudiziaria ad personam. Il Cavaliere potrebbe leggere la mossa di Palermo come dettata dall’esigenza di frenare possibili iniziative del Colle nei suoi confronti e ritornare sulla via della cupio dissolvi con conseguenze nefaste per il governo.

Certo, quest’ultima considerazione è del tutto secondaria rispetto alle altre, né le possibili interpretazioni politiche possono essere un freno all’azione della magistratura, ma da un certo punto di vista, è forse la conseguenza più insidiosa per la stabilità dell’Italia.

Alcuni giorni fa sono state depositate le motivazioni della sentenza assolutoria nei confronti di due ufficiali dei carabinieri accusati di aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, processo connesso a quello sulla trattativa Stato-mafia: di fatto i giudici di questo processo sono entrati a gamba tesa nel processo connesso, smantellando l’ipotesi di un accordo segreto tra istituzioni e boss. La mossa della Procura di Palermo, più che rilanciare l’ipotesi opposta, suona come una campana a morto di un’inchiesta che a quanto pare non riesce a decollare. Forse è troppo presto per fare chiarezza su quanto realmente avvenne in quei fatidici anni. D’altronde non è andata diversamente per i tanti procedimenti riguardanti la strategia della tensione degli anni ’70 alla quale la trattativa Stato-mafia è collegata. Ci vorrà tempo, forse, o forse altri magistrati.

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