29 Aprile 2014

Ucraina, lo stallo continua

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La partita a scacchi che si sta giocando nell’Ucraina orientale continua. A complicare le cose, la cronaca nera: Gennady Kernes, sindaco della seconda città dell’Est, Kharkiv, è stato ferito gravemente in un agguato. Ebreo, ora lotta tra la vita e la morte in un ospedale di Haifa. I filorussi hanno accusato dell’attentato i neonazisti di Settore Destro, che lo avrebbero anche minacciato in precedenza. Ma l’Occidente, ovviamente, accusa i filorussi. Il punto è che Kernes era stato uomo di Yanukovich, ma dopo la vittoria dei rivoltosi aveva tentato di barcamenarsi per salvare se stesso e la città, allacciando rapporti con il nuovo potere, da qui la sua identificazione, da parte di alcuni organi di stampa, come uomo di Kiev. In realtà, Repubblica scrive che pur intessendo queste nuove relazioni «non ha mai smesso di criticare il governo di transizione di Kiev» e, pur cercando di sedare moti di ribellione filorussi, non ha mai nascosto il «suo sostegno agli “oplot” (i miliziani filorussi ndr.)». Vicenda oscura che richiama alla memoria il macabro lavoro dei cecchini di piazza Majdan, sul quale, a distanza di tempo, ancora non è stata fatta chiarezza (e dire che è passato tempo e che la Ue aveva promesso un’inchiesta indipendente: si farà, forse, quando tutte le prove saranno oramai inquinate).

Resta che ad oggi sono stati uccisi sette filorussi dalle forze nazionaliste e che l’esercito ucraino fronteggia i miliziani rivoltosi a Sloviansk e in altre zone dell’Est presidiate da miliziani della parte avversa – baricentro della rivolta la città di Donetsk – e che la Russia ha chiarito di esser pronta a dar man forte ai ribelli in caso di attacco.

Ieri, tra l’altro, un’altra tornata di sanzioni mirate ad opera degli Stati Uniti e della Ue hanno colpito la cerchia dei fedelissimi di Putin, cosa che comporterà una reazione di Mosca, come da dichiarazioni ufficiali. Insomma, il dialogo sembra languire, anche se i contatti tra Usa, Ue e Russia proseguono: è di ieri un cenno distensivo del ministro della Difesa russo il quale, ha riferito il suo omologo Usa con il quale ha interloquito, ha assicurato che la Russia non ha intenzione di invadere e che le truppe russe schierate al confine ucraino hanno terminato le esercitazioni e sono pronte a ripiegare.

In questa temperie, si segnala la visita a Roma del Presidente ucraino Arseny Yatseniuk, che ha colto al volo l’occasione dalla canonizzazione di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII per essere ricevuto da Francesco. Alcuni hanno obiettato sull’incontro, dal momento che Yatseniuk non ha alcuna legittimità popolare se non quella a lui conferita dal colpo di Stato, o rivoluzione che dir si voglia, di Piazza Majdan. In realtà Francesco, con sano realismo, ha ricevuto un premier riconosciuto da tutto il mondo occidentale per consegnargli una penna con la quale, questo il suo invito, firmare la pace. Insomma, non una forma di riconoscimento ufficiale, seppur mascherata, ma un realistico invito a trovare una soluzione negoziale alla crisi, ovvero quanto il Signore richiede a un uomo di pace. D’altronde la pace si fa tra i protagonisti del conflitto, che non sceglie certo il Papa.

Ma al di là, restano le accuse reciproche tra Russia e mondo occidentale: a Putin si ascrive un aggressivo sostegno alla ribellione dell’Ucraina orientale con annesso invio di veterani, i famosi “omini verdi”, e di soldi per pagare i rivoltosi. Accuse che fanno il paio con quelle lanciate alla parte avversa, quelle cioè di aver pagato profumatamente, grazie a Ong utilizzate allo scopo, i rivoltosi di Piazza Majdan e di aver addestrato gli “omini neri” protagonisti della svolta di Kiev. Qualcuno, a tale proposito, ha anche rispolverato la vicenda della Rete Gehlen. Generale e capo dello spionaggio tedesco sul fronte Orientale, Reinhard Gehlen fu reclutato dalla Cia nell’immediato dopoguerra e divenne capo dei servizi di informazione della Germania Ovest fino agli anni sessanta. Gehlen, secondo una certa vulgata, avrebbe portato in dote alla Nato la rete di spionaggio nazista nell’Est Europa in funzione anti-sovietica, che poi sarebbe diventata, tra l’altro, la base logistica di reclutamento e addestramento della Gladio (organizzazione segreta creata allo scopo di contrastare il comunismo) dei Paesi orientali: gli elementi neonazisti protagonisti di piazza Majdan proverrebbero proprio dalla gladio ucraina.

Ma al di là delle tesi suggestive, ha fatto notizia la minaccia del governo di Kiev di tagliare l’acqua potabile alla Crimea. Una minaccia che è stata salutata da diversi media occidentali come una degna risposta del governo democratico ucraino alle pressioni russe. Sono gli stessi media che hanno definito inaccettabile la minaccia di Putin di farsi pagare il gas russo dagli ucraini – del quale da tempo Kiev usufruisce a prezzi stracciati -, pena il taglio delle forniture. Orbene, la minaccia di Putin, anche se rappresenta certamente una ritorsione, ha alcuni fondamenti: il prezzo fortemente ridotto delle forniture energetiche era giustificato dai legami di fratellanza tra i due Paesi, mentre non è più giustificato se Kiev diventasse, com’è diventata, accesamente antirussa. D’altro canto, Putin ha fatto notare come Kiev abbia goduto finora di un’apertura di credito che gli ha consentito di accumulare un debito molto alto con Mosca, ingiustificato nelle mutate circostanze. Insomma, una minaccia che comunque si fonda su ragioni politiche e di mercato: è alquanto bizzarro invece che l’Occidente sostenga un governo antirusso e chieda alla Russia di pagare il conto. Toccherebbe all’Occidente, semmai, sovvenire alla bisogna. Tant’è.

Altra cosa è, invece, la minaccia di tagliare l’acqua potabile a un’intera regione senza alcuna giustificazione se non per mera ritorsione: una misura certo più tragica del taglio delle forniture energetiche, che colpirebbe indiscriminatamente un’intera popolazione, rea, forse, di aver votato un referendum di annessione alla Russia contro i desiderata di Kiev e dell’Occidente. Una ritorsione che avrebbe, del caso, un sapore nazistoide. Ed è ben strana l’euforia dimostrata dai giornali occidentali nel dare la notizia.

Ma, al di là delle minacce e del braccio di ferro, resta lo stallo: i ribelli – ché dietro gli uomini armati asserragliati negli edifici pubblici delle città dell’Est non c’è solo la Russia, ma anche la popolazione (particolare non secondario) – non depongono le armi. E chiedono uno scambio di prigionieri per liberare i sette uomini da loro catturati come spie, spacciati da tutti i giornali come osservatori dell’Osce, ma che dell’Osce a quanto pare non sono, come da smentita di Claus Neukirch, alto rappresentante dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea (smentita non ripresa dagli organi di stampa). A Kiev non si rassegnano a perdere, dopo la Crimea, anche le ricche regioni orientali: sarebbe uno scacco terribile in termini politici ed economici. Né i governanti di Kiev, e molti dei loro sponsor, riescono ad accettare l’unica soluzione possibile a questa crisi, ovvero la costituzione di una nuova Ucraina su base federale, come ipotizzato anche da Henry Kissinger, non certo un putiniano di ferro.

Lo stallo rischia di prolungarsi e degenerare in una serie di misure coercitive reciproche alquanto rischioso e incontrollabile. La speranza resta appesa a un filo, anzi a una penna. Quella che Francesco ha regalato a Yatseniuk.

 

Una nota a margine merita una notizia alquanto secondaria, ma di interesse: Nigel Farage, leader dell’Ukip, partito che i sondaggi indicano come vincente in Gran Bretagna nelle prossime elezioni europee, nel corso di una conferenza stampa ha rivelato che il suo modello politico di riferimento è Vladimir Putin. Segno che in Occidente la narrativa della crisi ucraina, così come presentata dai giornali, incontra sacche di criticità.

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