28 Giugno 2016

Pietro e Paolo: quella targa sulla via Ostiense

Pietro e Paolo: quella targa sulla via Ostiense
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La via Ostiense, una delle tante vie delle capitale affollate di macchine, via-vai di gente e gas di scarico. Tra il risuonare di clacson e il rumore di fondo della città, può capitare di alzare gli occhi su un muro anonimo, giallo e ingiallito di tempo. Uno dei tanti delle palazzine che fanno argine alla strada che conduce al porto di Roma.

 

Sul muro una targa un tempo bianca mostra due figure che si abbracciano. Due figure note quanto care al cuore del popolo romano, i santi Pietro e Paolo dei quali oggi ricorre la festa.

 

Quell’abbraccio che occhieggia a un lato della strada, discreto e appartato, confuso tra i colori della città e i gas di scarico, mi ha sempre commosso. Da quando me lo ha fatto notare un giorno don Giacomo, in una delle tante volte che si andava a San Paolo, sulla tomba del quale era solito sostare in ginocchio e preghiera (una volta la settimana quando si trovava a Roma).

 

Quella targa così anonima mi è rimasta nel cuore più di altre cose. Forse proprio perché così nascosta, marginale e marginalizzata dalla vita comune, come anche dai diversi e diversificati “circuiti” della residua devozione cristiana. Inutile quasi. Dove qual quasi è tutto.

 

Eppure qualcuno l’ha pure posta quella pietra bianca sul muro: il Comune di Roma, allora, ed era un altro Giubileo (di misericordia), quello del ’75. Posta a ricordo di un’antica cappella dedicata al santissimo crocifisso, edificata sul luogo nel quale una pia devozione tutta romana voleva che si fossero incontrati Pietro e Paolo.

 

Un incontro tra i tanti, che certo ne avevano avuti altri in vita, e anche di burrascosi. Ma quello rappresentato in quella targa sarà stato forse il più commosso, perché segnala il momento in cui le loro strade si separarono per sempre, almeno qui sulla terra e per breve tempo.

 

Infatti qui, dopo un tratto di strada comune, sarebbero stati separati per essere condotti ai rispettivi luoghi di martirio: l’uno alle Acque Salvie, poi Tre Fontane, e l’altro agli Horti di Nerone, poi Vaticano.

 

Nulla di vero in questa pia tradizione, che il loro martirio è stato distinto e distante nel tempo. E però quella Roma che li ha accomunati nel martirio e nel patronato cittadino, ha voluto immaginare questo momento di distacco e d’abbraccio. Un congedo dal mondo che è anche un abbraccio.

 

Già, perché quell’abbraccio non è solo tra i due apostoli. Ma qui, a Roma, diventa, per storia e destino, un abbraccio urbi et orbi, alla città e al mondo.

 

Il pescatore di uomini, che tale era diventato l’umile pescatore di Galilea giunto a Roma per seguire il destino disegnato per lui dal suo Signore, che abbraccia l’apostolo delle genti, che l’umiltà l’aveva conosciuta dopo anni di arroganza criminale e l’aveva scelta anche per nome (Paolo, cioè piccolo).

 

Un’umiltà, quella dei due apostoli, capace, nel senso volumetrico del termine, di contenere la grazia di Dio che a Roma li ha chiamati alla prova più grande, quella del martirio. Una prova nella quale è più evidente che mai che l’uomo non fa nulla da sé, ma è tutto appeso alla grazia di Dio.

 

«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede», scriverà Paolo accennando a quel momento finale con una semplicità disarmante.

 

Ci si aspetterebbe chissà quale consuntivo di una vita tanto imponente, feconda e avventurosa. E invece solo: «Ho conservato la fede». Quanta meravigliosa banalità abita la fede cristiana…

 

Quanto a Pietro, che aveva tradito il Signore e che aveva pianto su quel tradimento quando Gesù, voltandosi, l’aveva guardato con affetto inimmaginabile, chiederà di esser crocifisso a testa in giù, non ritenendosi degno di subire lo stesso supplizio del suo Signore. E quanta dolcezza in quell’inusuale richiesta, che attraversava una storia impossibile eppure vissuta.

 

Ma queste son cose note. E però quella targa nascosta, quell’abbraccio commosso, le rimanda e le rinnova allo sguardo di un qualche spettatore distratto cui capita, seppur di sfuggita, di fissare quel muro ingiallito.

 

A cui capita di riguardare quell’abbraccio impossibile con la tacita speranza di essere anche lui abbracciato in quel modo. Da quel Gesù che ha reso possibile quell’abbraccio impossibile. Ché quanto all’uomo è impossibile, a Dio è tutt’altro.

 

 

 

 

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