19 Agosto 2013

Il dramma egiziano e la pace tra Arabia e Israele

Il dramma egiziano e la pace tra Arabia e Israele
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Quel che sta accadendo in Egitto è sotto gli occhi di tutti e non serve approfondire granché, dopo tante analisi di esperti e giornalisti più o meno informati dei fatti. Nel nostro piccolo, ci limiteremo a qualche cenno, nella speranza di offrire ai nostri lettori qualche spunto di riflessione ulteriore.

 

Iniziamo dal primo punto, che è bene sia chiaro subito. Ne ha scritto Lucio Caracciolo sulla Repubblica del 17 agosto, ci limitiamo a riportare le sue parole: «Questa non è una crisi egiziana, è una crisi mondiale. Ma il mondo l’osserva impotente, senza sapere come sedarla. Forse inconsapevole della sua portata globale».

Una crisi mondiale dunque, che si consuma sotto i nostri occhi e che avrà ripercussioni internazionali. Non siamo semplici spettatori di un dramma che riguarda altri: è bene ricordarlo.

 

La seconda considerazione riguarda il luogo in cui si sta consumando la tragedia: il Medio Oriente. Ora la regione ha già i suoi problemi: la guerra siriana, lo scontro tra sciiti e sunniti alimentato da agenzie specializzate – l’attentato a Beirut attuato durante i disordini egiziani è teso ad allargare il fronte del caos – , le campagne mirate contro i cristiani, l’attivismo delle varie sigle terroristiche che si accompagna con quello dei vari movimenti fondamentalisti. Il mattatoio egiziano va quindi ad alimentare, semmai ce ne fosse bisogno, l’incendio che già divampa in Medio Oriente e nel mondo arabo. Altra benzina su un fuoco che rischia di divorare l’intera regione; e non solo.

 

Il terzo punto riguarda invece l’atteggiamento dei Paesi occidentali. Al momento del colpo di Stato militare il lessico delle cancellerie si è arricchito di una nuova espressione che va ad aggiungersi al già vasto repertorio di eufemismi bellici inventati nel recente passato: intervento umanitario, guerra per esportare la democrazia etc. Nel caso egiziano si è parlato di un intervento volto a ripristinare la democrazia violata Insomma un golpe benefico, libertario e democratico. Un’ipocrisia che fin da subito ha reso l’Occidente connivente con chi ora sta massacrando civili inermi.  

 

Singolare anche un’altra circostanza: quei Paesi occidentali che si sono affrettati a chiedere, per molto meno, bombardamenti contro Libia e Siria, nel caso egiziano si limitano a sterili condanne morali che non hanno alcun esito, se non quello di alimentare nei generali la convinzione di godere di una sorta di immunità internazionale.

Significativo anche il fatto che Arabia Saudita e Giordania abbiano manifestato pieno sostegno ai militari egiziani. I due Paesi arabi in questo momento sono i più ferventi sostenitori delle milizie internazionali  anti – Assad, in quel conflitto che vede l’Occidente sfidare Russia e Iran, le quali invece sostengono Damasco.

 

Si è detto che la crisi egiziana può innescare una nuova ondata di persecuzioni contro i cristiani. Significativo in questo senso quanto avvenuto il primo giorno di repressione: una ventina di chiese sono state incendiate. Edifici di culto copti principalmente, ma anche cattolici (anche se queste distinzioni hanno davvero poco senso in queste cose). Dopo l’Iraq, la Siria, ora anche in Egitto la lunga tradizione di convivenza religiosa – nei suoi alti e bassi – tra islam e cristianesimo rischia di venire meno. Un altro Paese arabo rischia di vedere l’esodo in massa della minoranza cristiana, incalzata da persecuzioni cruente.

Si è detto altrove che il golpe rischia di consegnare l’islam egiziano al fondamentalismo, quindi, in questo senso, la persecuzione che incombe sui cristiani è una conseguenza delle infauste scelte attuate in questi giorni. Anche questo è bene ricordarlo: fermare subito i carnefici arresterà la spirale di violenza che in un futuro non molto lontano investirà inevitabilmente anche i cristiani.

 

Ma c’è un dubbio ulteriore sull’incendio delle chiese. Se ne è fatto portavoce sulla Repubblica del 16 agosto l’intellettuale arabo Tariq Ramadan, professore di Oxford, critico con i Fratelli musulmani – che hanno le loro colpe in questa tragica deriva -, ma ancora di più con i generali che oggi li massacrano. In un’intervista al quotidiano romano, Ramadan spiega come i golpisti stiano usando abilmente, oltre alle armi convenzionali, le armi della propaganda, manipolando la realtà – d’altronde chiamare un golpe “svolta per il ripristino della democrazia”…-.  Questa propaganda sarebbe stata attuata anche in occasione degli attentati ai luoghi di culto cristiani. Spiega Ramadan: «Nessuno aveva toccato i cristiani durante la crisi, ma proprio ora che serve seminare terrore, le chiese vengono incendiate». Già, per giorni e giorni i Fratelli musulmani hanno occupato strade e piazze, senza che si sia registrato alcun incidente o atto ostile contro i cristiani; poi, improvvisamente, gli attentati… 

Così, alle parole di Ramadan, aggiungiamo un ricordo personale: poco prima dell’ondata di manifestazioni che causò la caduta di Mubarak c’era stato un attentato a una chiesa di Alessandria che aveva causato 21 morti. Quel delitto fu subito ascritto ai fondamentalisti islamici; più tardi, invece, dello stesso fu accusato l’allora ministro degli Interni di Mubarak e l’attentato fu inquadrato all’interno di una strategia volta a creare ostilità tra islamici e cristiani. 

 

Ma al di là dei possibili retroscena, quelle chiese date alle fiamme a ridosso della solennità dell’Assunzione della Madonna – tra l’altro venerata anche dai musulmani che la considerano madre del profeta Gesù – è un’ulteriore ombra oscura su questa vicenda. Che allarga gli orizzonti del conflitto e lo inquadra nello scontro di civiltà prefigurato e alimentato da oscuri apprendisti stregoni.

 

Infine, un’ ultima considerazione: la situazione egiziana è precipitata proprio nei giorni in cui, dopo anni di stallo, era ripartito il dialogo tra israeliani e palestinesi. Su questa coincidenza di tempi hanno parlato in molti, spiegando come l’incendio egiziano, allargando il fossato che divide arabi ed israeliani, può bruciare anche le residue speranze di riconciliazione tra Stato ebraico e palestinesi.

 

Ma, tra le tante considerazioni su quest’ultima coincidenza, ce n’è una che merita attenzione. È di un autorevole analista di un influente think tank Usa, Robert Kaplan, che, intervistato sulla Stampa del 17 agosto, ha il merito di parlar chiaro. Così, dopo aver dichiarato che in « Egitto questa democrazia (quella islamica ndr.) può produrre solo un governo anti-americano, contrario ai nostri valori e interessi», ha aggiunto: «L’unica ragione per cui il premier israeliano Netanyahu ha accettato di tornare a sedersi al tavolo delle trattative di pace con i palestinesi è stata la presa del potere in Egitto da parte dei militari. Questi sono interessi fondamentali degli Stati Uniti».

Le parole di Kaplan sono in qualche modo suffragate anche da un articolo di Paolo Mastrolilli, sempre sulla Stampa, stavolta del 19 agosto. Nel suo articolo, Mastrolilli spiega come il senatore repubblicano Rand Paul avesse provato a introdurre nel Senato Usa «una misura per minacciare il taglio degli aiuti economici da 1.5 miliardi di dollari all’Egitto», ma «la potente organizzazione ebraica American Israel Public Affairs Comittee aveva fatto azione di lobby per fermarlo. Israele era dalla parte dei militari, e non voleva che Washington li abbandonasse».

 

E’ probabile, quindi, che quanto rivelato da Kaplan abbia un fondo di verità. Anche se è palesemente falso che l’amministrazione Usa abbia acconsentito a richieste provenienti da Netanyahu, altrimenti Obama non avrebbe provato a mediare tra generali e Fratellanza mettendo in gioco in maniera così disastrosa la sua autorevolezza. Più probabile che, nella situazione egiziana, in Israele si reputi che i militari offrano maggiori garanzie di sicurezza, come già accadeva ai tempi di Mubarak, piuttosto che i Fratelli musulmani. Garanzie necessarie al momento di sedersi al tavolo dei negoziati con i palestinesi.

E che tali esigenze di sicurezza israeliane abbiano incontrato convergenze internazionali da parte di ambiti occidentali interessati a entrare nel grande gioco del Medio oriente in un momento di debolezza dell’amministrazione Usa.

 

Ma un processo di pace non può iniziare con una carneficina. Né è possibile congelare per sempre l’Egitto ai tempi di Mubarak, a meno di consegnarlo in perpetuo alla tirannide.

Occorre che legittime esigenze di sicurezza e più o meno legittimi interessi occidentali non nuocciano alle altrettanto legittime aspirazioni alla pace e alla democrazia dei popoli arabi. Solo così si troveranno vie di pace tra Arabia e Israele.

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