L'attacco a Shaybah e le guerre segrete del Medio oriente
Tempo di lettura: 3 minutiL’attacco degli houti ai giacimenti petroliferi di Shaybah della settimana scorsa e la più recente caduta di Khan Sheikhoun in Siria segnano una svolta nella guerra che sta consumando il Medio oriente.
Guerra complessa che oppone l’Iran e le milizie sciite (dislocate in Libano, Siria e Iraq) a sauditi e americani (e israeliani); che si combatte su più fronti, a vari livelli.
Stallo nel confronto iraniano
Il confronto diretto, che vede gli Stati Uniti opporsi all’Iran (a seguito della rescissione del trattato sul nucleare siglato con Teheran), dopo tante criticità pregresse è in stallo.
Al momento gli Usa si stanno limitando a cercare adesioni alla missione volta a scortare le petroliere in transito dallo Stretto di Hormuz.
Non è chiara la vera ragione della missione, che di certo non è solo quella esplicitata. Ma resta arduo immaginarne un’efficacia proattiva. In realtà l’affanno a reclutare adesioni sembra solo un escamotage per prendere tempo.
Trump non vuole questa guerra, ma non è in grado di vincere le pressioni di segno opposto, né può annullare quanto fatto finora: serve tempo per trovare un modo per uscire dal cul de sac nel quale si è ficcato.
L’attesa
Così Trump sta facendo altro. La sua totale concentrazione sulla Cina, con la quale pure non vorrebbe uno scontro alzo zero (South China Morning Post), ha avuto appunto l’esito di distogliere l’attenzione degli Usa dal Medio oriente (Haaretz).
In tale prospettiva va letto anche l’immaginifico scontro con la Danimarca per l’acquisto della Groenlandia e altro. Improvvisate che stanno mandando in tilt quanti stanno cercando di riportare il focus dell’amministrazione Usa su Teheran.
Lo stallo permette di esplorare vie di compromesso, come quella concordata tra Putin e Macron, al centro dei recenti colloqui tra il presidente francese e il ministro degli Esteri iraniano, giudicati “costruttivi” da quest’ultimo.
Ma per sbloccare lo stallo è presumibile che occorrerà attendere il 17 settembre, data delle elezioni israeliane, che vedono per la prima volta vacillare il decennale regno di Netanyahu, il quale ha spinto Trump a rescindere l’accordo sul nucleare con quel che consegue (Haaretz).
Netanyahu potrà uscirne rafforzato oppure potrebbe addivenire a più miti consigli, come potrebbe perdere. La ricomposizione del quadro politico israeliano influirà non poco sul grande gioco mediorientale.
Shaybah
Nello stallo, la guerra di logoramento registra tre sviluppi. Anzitutto l’attacco a Shaybah, citato a inizio nota, portato dai ribelli Houti, milizia sciita yemenita contro la quale infuria la guerra della coalizione a guida saudita coadiuvata dagli Usa.
Shaybah è il cuore strategico della Aramco, la più importante compagnia petrolifera di Riad. Mai il territorio saudita è stato attaccato tanto in profondità: ciò segnala che l’industria petrolifera saudita è a rischio. Sviluppo che rende Riad più vulnerabile e potrebbe spingerla a aprirsi al dialogo.
Detto questo, anche la guerra yemenita appare legata all’esito delle elezioni israeliane dati i legami tra Netanyahu e il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman. Vedremo.
Israele, gli Usa e le milizie irachene
Sempre nell’ambito del confronto con l’Iran deve leggersi l’esplosione di un grande deposito di armi delle milizie sciite irachene – che segue altri episodi simili.
Haaretz lo attribuisce a Israele e sottolinea l’aspetto più importante della vicenda, cioè quanto paventato da un alto ufficiale Usa al New York Times, il quale ha manifestato le paure americane per le manovre israeliane contro le milizie locali.
Tali azioni, infatti, potrebbero spingere il Paese, dove l’influenza sciita è forte, a chiedere il ritiro delle truppe Usa ivi stanziate. Sarebbe uno scacco per gli Stati Uniti. Da qui qualche discrasia tra Washington e Tel Aviv.
Luce verde per Khan Sheikhoun
Nel conflitto mediorientale, un nuovo capitolo siriano, con la conquista da parte di siriani (e russi) di Khan Sheikhoun, città chiave dell’enclave di Idlib, controllata da al Qaeda.
Al di là dell’aspetto strategico, vanno evidenziati due aspetti. Finora l’attacco a Idlib, da tempo obiettivo di Damasco, ha trovato contrasto, anzitutto attraverso strumentali appelli umanitari, che l’hanno bloccato più volte (nessun appello per Raqqa trattata dagli Usa come Dresda, vedi il Guardian).
Trump aveva addirittura dichiarato che era pronto a difenderla (bizzarra santa alleanza con al Qaeda…). Invece l’offensiva di questi giorni non ha trovato contrasto: è evidente una “luce verde” internazionale.
Nella battaglia, anche l’attacco siriano a un convoglio turco destinato a soccorrere i miliziani. Putin l’ha tacitamente avallato, nonostante ciò rischiasse di incrinare i suoi rapporti con i turchi.
Ha così ribadito posizioni pregresse: l’uso della pazienza per le indebite mire di Ankara sul Paese confinante non è un placet a scapito delle aspirazioni di Damasco di reintegrare la sua sovranità sul territorio perduto.
Insomma, nello stallo, il confronto regionale Iran-Usa riserva sviluppi da seguire.
Nella foto in evidenza, un miliziano houti tra le rovine yemenite