24 Luglio 2017

Di guerre inutili e impossibili neutralità

Di guerre inutili e impossibili neutralità
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«È ancora possibile, in un mondo afflitto da guerre e minacce, parlare della neutralità come di un possibile rimedio all’uso della forza nelle relazioni internazionali? Ne era convinto Vittorio Dan Segre, scrittore e studioso italo-israeliano scomparso nel 2014».

 

«Si era battuto per Israele come giornalista e soldato, ma era giunto alla conclusione che soltanto la scelta della neutralità tra i maggiori protagonisti delle interminabili crisi medio-orientali avrebbe spezzato la catena dei conflitti». Così inizia un ponderato articolo di Sergio Romano pubblicato sul Corriere della Sera del 23 giugno, nel quale accenna a un convegno sulla visione di Vittorio Dan Segre svoltosi in questi giorni a Gerusalemme.

 

Convegno nel quale si sono succeduti interventi venati da un certo scetticismo, racconta Romano, stante che i conflitti medio-orientali sono parte di una «guerra mondiale» che vede coinvolte nazioni come Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran e molte potenze europee.

 

Però, secondo Romano, è più che utile aprire un dibattito sul tema, soprattutto ora, perché «non v’è stato un momento in cui le guerre fossero altrettanto inutili». Basta vedere come «il Paese più bellicoso e maggiormente incline ai conflitti (gli Stati Uniti) non ha veramente vinto alcune delle sue guerre maggiori»: Corea, Vietnam, guerre del Golfo, Afghanistan. Sconfitte o «false vittorie».

 

E «forse l’aspetto più interessante e sorprendente di queste false vittorie è la particolare natura del falso vincitore: una democrazia militare in cui la ricchezza finanziaria, i progressi della scienza e quelli delle nuove tecnologie hanno creato il più raffinato e micidiale degli arsenali».

 

C’è «un nesso» tra le false vittorie e lo sviluppo statunitense, continua Romano: infatti quanto più l’America mette in campo il suo sofisticato arsenale, «tanto più i suoi nemici sanno che non potranno mai batterla sullo stesso piano». Da qui le guerre asimmetriche che «terminano temporaneamente per stanchezza di entrambi i combattenti, ma non si tratta quasi mai di pace e stabilità».

 

Certo, oggi ci sono minacce, come quelle dell’Isis, che richiedono la necessaria «fermezza», conclude Romano. «Ma qual’è oggi il senso e l’utilità di guerre che non possono essere vinte?».

 

Il ragionamento di fondo di Romano si basa sull’idea che le guerre attuali siano condotte, come quelle d’un tempo, per conseguire degli scopi: gesostrategici o economico-finanziari.

 

Purtroppo le guerre moderne hanno anche una motivazione ulteriore, che spesso diventa predominante, almeno nel suo prolungarsi: ovvero quella di creare aree di destabilizzazione atte a frenare un avversario (anche in maniera indiretta) e che, allo stesso tempo, offrano nuove opportunità a quanti possono lucrare sull’instabilità stessa (industria delle armi, finanza, Tecnologia, criminalità organizzata etc).

 

Va però ricordato che non può essere il conseguimento dell’instabilità la motivazione ufficiale di un conflitto, stante che la ricerca del consenso ancora deve basarsi sulla propaganda della guerra giusta (per esportare la democrazia, abbattere una tirannia, eliminare una minaccia).

 

Ed è proprio questo piano propagandistico che la tesi conclusiva di Romano (che fonda un pacifismo di marca non più ideologica ma pragmatica) va ad attaccare in maniera efficace.

 

Né può essere obliato che i conflitti immaginati per lucrare sull’instabilità non hanno prodotto agli ambiti che li hanno sponsorizzati i ricavi sperati, stante che rischiano di subire lo scacco dalle potenze emergenti che promuovono altre e diverse élite globali.

 

Ma al di là, resta che alla base dell’articolo c’è la visione neutralista di Vittorio Dan Segre, che l’ha immaginata anzitutto come punto d’approdo per la sua patria. Lo scetticismo evocato dall’articolo di Romano riguardo tale visione non è affatto la registrazione di un contrasto, ma il prodotto di una visione realistica dello scontro in atto e della pervicacia delle opposizioni.

 

Resta che, soldato e giornalista, Dan Segre non era certo un sognatore, anzi. E se la sua prospettiva non può che suscitare perplessità, non può, d’altro canto, che essere salutata con certa gratitudine, soprattutto oggi che il Medio oriente vede riproporsi un nuovo scontro arabo-israeliano a causa della controversia sulla Spianata delle moschee (vedi Piccolenote).

 

Conforta in tal senso ricordare le tante visioni immaginifiche prodotte da figure qualificate all’epoca come sognatori, diventate poi realtà geopolitiche consolidate (vedi ad esempio alla voce Unione europea).

 

E se oggi pare impossibile l’idea di una neutralità concordata tra i vari protagonisti delle guerre medio-orientali, magari in futuro lo sarà meno. Se ciò dovesse accadere lo dovremo a chi ha inserito nel complesso gioco geostrategico della regione una variabile nuova e mai pensata prima.

 

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