Iran. La pausa di riflessione di Trump e la guerra ai Brics

“In un momento decisivo della crisi missilistica cubana, quando alcuni alti funzionari stavano spingendo John F. Kennedy a bombardare le basi militari sovietiche dell’isola, il presidente decise di prendersi una pausa per cena. “Andate tutti a mangiare qualcosa, poi tornate e vediamo”, disse ai suoi consiglieri, come si legge nella trascrizione della riunione del 27 ottobre 1962 del gruppo di alto livello noto come ExComm. JFK approfittò di quel momento per parlare con il fratello della strategia non convenzionale che alla fine risolse la crisi ed evitò il disastro nucleare”.
La pausa di riflessione
“Il presidente Donald Trump non è JFK. Ma ha appena fatto qualcosa nell’ambito della crisi iraniana che mi ricorda un po’ la decisione di Kennedy di allontanarsi dalla cacofonia dell’ExComm per esplorare le varie opzioni. Trump ha dichiarato giovedì che, invece di bombardare immediatamente l’impianto nucleare sotterraneo iraniano di Fordow, come aveva sollecitato Israele” si prenderà una pausa di riflessione di due settimane. Inizia così un articolo di David Ignatius sul Washington Post. Penna di punta del media di riferimento del partito repubblicano, quanto scrive ha un peso, anche perché molto ben informato.
“La decisione di Trump di ‘fare marcia indietro’ dal bombardamento di Fordow – continua Ignatius – ha fatto infuriare i falchi. Ma credo che abbia fatto bene a prendersi più tempo per raggiungere un accordo vincolante e verificabile” con l’Iran. “Per ottenere questa finestra negoziale ha resistito alle pressioni per entrare in una guerra che il Congresso non ha dichiarato e che l’opinione pubblica non sostiene, secondo un sondaggio del Washington Post”.
“Trump ha preferito una soluzione negoziata fin dall’inizio, secondo quanto riferito da fonti vicine ai colloqui. Tale desiderio è stato alimentato da contatti diretti e indiretti con Teheran, proseguiti anche durante l’ultima settimana di bombardamenti israeliani. Teheran ha recentemente inviato segnali di flessibilità su alcune questioni chiave, secondo fonti informate. Tutti questi fattori contribuiscono a spiegare la pausa di due settimane di Trump. Così come l’incertezza sul funzionamento delle armi anti-bunker e le imprevedibili conseguenze dell’attacco”.
“Mentre Trump si allontana dalla canea di consigli contrastanti, cosa può imparare dalla strategia di Kennedy su Cuba? L’epilogo cubano fu un classico esempio di doppiezza diplomatica che salvò la faccia a entrambe le parti. I sovietici annunciarono pubblicamente il ritiro dei loro missili nucleari da Cuba e gli Stati Uniti si impegnarono a non invadere l’isola. Ma, per ingraziarseli, Kennedy promise anche segretamente di ritirare i missili nucleari statunitensi dalla Turchia (di cui gli Stati Uniti comunque non avevano bisogno)”.
“Fonti informate mi dicono che Trump desidera ardentemente un accordo diplomatico. Ma per ottenerlo, deve negoziare con maggiore abilità e coerenza. La finezza non è il suo forte. Le persone che prendono parte ai negoziati affermano che il problema principale è che la leadership iraniana […] non si fida di lui. Pensano che sia uno strumento di Israele e che stia cercando di ingannarli con i negoziati”.
“Non hanno aiutato”, scrive Ignatius, i suoi post e le sue dichiarazioni da bullo. “Il messaggio di Trump dovrebbe aiutare a convincere Teheran di ciò che dovrebbe essere ovvio, nonostante i suoi commenti stridenti: più di qualsiasi altro presidente nella storia recente, è pronto a intraprendere una strada indipendente da Israele. Lo ha chiarito ad aprile, quando ha annunciato l’avvio dei negoziati con Teheran, sotto lo sguardo sorpreso del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu“.
“[…] Nelle prossime due settimane, le comunicazioni di Trump dovranno essere più coerenti e discrete. In Medio Oriente, cercare di umiliare le persone non è una buona tattica […]. Gli iraniani (come la maggior parte delle nazioni) reagiscono male agli ‘ultimatum massimalisti’, alle richieste pubbliche di resa e alle minacce di assassinare il loro leader”.
Fin qui Ignatius, le cui osservazioni sulle propensioni di Trump appaiono fondate, anche se siamo molto meno irenici sulle prospettive: troppe le pressioni e le variabili per poter affermare che manterrà la posizione. Trump non è JFK, né allora c’era di mezzo Israele e il partito della guerra americano era molto meno potente. Infine, e soprattutto, il mondo non stava attraversando un periodo di transizione tanto drammatico.
Guerra ai pilastri dei Brics
Infatti, i circoli guerrafondai occidentali vedono in questa guerra un’opportunità unica. Non si tratta solo di favorire l’ascesa di Israele a unica potenza regionale, ma anche di assestare un vulnus significativo – mortale, nelle loro speranze – ai Brics, la cui ascesa vogliono contrastare in tutti i modi, anche a costo di scatenare la terza guerra mondiale (come si è visto nel conflitto ucraino, che ormai danno per perso anche perché devono reindirizzare le loro già scarne risorse militari al nuovo conflitto… si nutrono di guerre).
Sul conflitto con i Brics scrive Pepe Escobar su Zerohedge: attaccando l’Iran si vuole “isolare la Cina da un’area decisiva per la sua sicurezza nazionale – le importazioni di energia – e dai cruciali corridoi di connettività della Nuova Via della Seta, aprendo al contempo un enorme ascesso nel ventre molle della Russia. Un colpo decisivo e tripartito, in un colpo solo, ai tre principali BRICS (Iran, Russia, Cina), all’integrazione eurasiatica e alla spinta verso un sistema di relazioni internazionali multipolare e multinodale”.
Se, quindi, Trump porterà l’America in guerra muterà radicalmente la direttrice della sua presidenza: getterà nel cestino della spazzatura il tentativo di ricreare un nuovo equilibrio globale in accordo con Cina e Russia (Piccolenote) e si consegnerà alle pulsioni dell’unipolarismo in disfacimento, a cui l’America First presterebbe il suo supporto ideologico (peraltro, si può prestare, dal momento che lo slogan riverbera, come la religione dell’unipolarismo, il perverso eccezionalismo Usa).
In tal modo, continua Escobar, Trump sarà “responsabile non di una, ma di due guerre per procura: contro la Russia e contro l’Iran, con i neonazisti di Kiev [vedi anche Le Monde ndr] e i genocidari di Tel Aviv in prima linea [da ricordare, in merito, l’improvvido sdoganamento dell’Azov in visita a Tel Aviv ndr.]. Tutto fa parte della guerra globale contro i BRICS”. Il Cancelliere Merz lo ha detto esplicitamente: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”. È ovvio, scrive Escobar, che Cina e Russia (e i Brics), non resteranno a guardare. Da cui l’incremento dei rischi di escalation.
Trump potrebbe frenare tale follia, ma è difficile fermare una macchina in corsa, una corsa che ha contribuito ad alimentare con le sue posture fuori registro. Peraltro, ieri ha ripetuto l’errore fatto quando ha avviato i negoziati con l’Iran, quando fissò una scadenza di due mesi. Se tra due settimane non sarà accordo, i falchi lo urgeranno ad attaccare. E la tempistica è stretta per una crisi di tale portata. Errare humanun est, perseverare… Né è detto che non attacchi prima, per sfruttare l’elemento sorpresa (ma Teheran stavolta sarà pronta). Sperem.
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