19 Giugno 2025

Iran. Trump sta decidendo, il mondo in bilico

di Davide Malacaria
Iran. Trump sta decidendo, il mondo in bilico
Tempo di lettura: 5 minuti

“Potrei attaccare oppure no, nessuno lo sa”. Così Trump. Una smentita di tutte le notizie che avevano dato per certo l’attacco americano all’Iran, come denota il post contro il Wall Street Journal, il più sicuro in tal senso: “Il Wall Street Journal non ha idea di cosa penso dell’Iran!“. Dall’altro è un modo per ritagliarsi quel ruolo di decisore ultimo che l’evolversi della situazione ha offuscato, disvelando quanto il potere dell’Imperatore sia relativo, soprattutto se di mezzo c’è Israele.

L’aggressione di Netanyahu all’Iran, infatti, mettendolo di fronte al fatto compiuto (Haaretz), lo ha costretto in un angolo nel quale ora si dibatte. Peraltro, il premier israeliano gli ha dimostrato, come aveva già fatto con Biden, che gli Stati Uniti devono semplicemente servire Israele in quanto gli è necessario, sia a livello militare che politico ed economico. Ma non devono interferire sulle sue decisioni, né su Gaza né altrove.

Il mondo in bilico

Così Trump deve decidere se accettare tale sudditanza o tentare ancora una volta di divincolarsi dalla stretta, come ha fatto quando ha nominato capo della divisione politica del Pentagono Eldbrige Colby e Tulsi Gabbard a capo dell’Intelligence nazionale; quando ha cacciato il consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz; quando ha avviato le trattative con l’Iran per la criticità nucleare o quando ha messo fine all’intervento contro gli Houti in Yemen.

Tutte decisioni prese in contrasto con i desiderata di Netanyahu, al quale però ha continuato ad approcciarsi in modalità servile, sapendo perfettamente chi ha più potere tra i due. Per evitare l’attacco all’Iran Trump dovrebbe fare quel che sembra incapace di fare, strappare decisamente con Netanyahu, decisione che gli guadagnerebbe l’ostilità aperta, quanto pericolosa, delle lobby ebraiche americane che sostengono la guerra.

Querelle che non riguarda solo la figura di Trump, che nulla interesserebbe, quanto il destino del mondo, che si ritrova a dipendere dal dilemma psicologico ed esistenziale (nell’accezione più stringente della parola) dell’Imperatore. Difficile che non attacchi ma c’è ancora uno spiraglio, seppur minimo, che non accada. Peraltro, quando Trump dice che nessuno sa quel che farà è perché il primo a non saperlo è lui.

Nel frattempo tergiversa, nella speranza che qualcosa o qualcuno apra possibilità di de-escalation. Al di là del rovello psicologico-esistenziale, sa che se bombarda l’Iran la sua presidenza rischia di finire. Se il conflitto dura, come probabile, vampirizzerà le risorse americane, già erose dal sostegno all’Ucraina, costringendolo a focalizzare tutta la sua attenzione sulla guerra e a rinunciare ai sogni di gloria dell’America First, rendendolo schiavo dei neocon e tanto altro.

Per capirlo basta un sottotitolo del New York Times: “Il presidente Trump sta valutando un’azione militare rapida in Iran. [Nel 2003] C’erano aspettative simili, che la guerra in Iraq sarebbe stata rapida e trionfale”. Peraltro, il vulnus alla sua vanagloria, centrata sul presidente che ha reso di nuovo grande l’America, sarà irreparabile. La sua presidenza sarà ricordata al modo di quella di George W. Bush, finita nella spazzatura della storia.

Mentre a quel destino scamperanno quanti ora lo incitano ad attaccare, che poi sono per lo più gli stessi che hanno sponsorizzato tutte le guerre made in Usa, dall’invasione irachena in poi.

Ciò perché, come scrive Owen Jones sul Guardian “non ci sono state conseguenze per la reputazione di quanti hanno applaudito tutte quelle guerre disastrose, consentendo loro di andarsene via fischiettando da tutte le scene del crimine per continuare a chiedere, senza vergogna, ancora più brutalità”.

Netanyahu in affanno

Mentre il mondo, quindi, è sospeso alla decisione di Trump, val la pena registrare alcuni dati. Il primo, ne abbiamo scritto ieri, è che Israele ha preso coscienza di aver fatto il passo più lungo della gamba.

Anzitutto, gli è andato male il colpo a sorpresa. L’attacco proditorio mirava a destabilizzare l’Iran decapitandone la leadership per aprire la porte a un regime-change. Amir Moussawi, ex diplomatico iraniano, ha rivelato che, anche grazie alla vasta rete di infiltrati, Tel Aviv mirava a uccidere 400 alti dirigenti iraniani, tra cui l’ayatollah Khamenei.

Sperava, cioè di ottenere un effetto simile a quello ottenuto con l’operazione cercapersone che ha falcidiato Hezbollah, con il corollario di una sollevazione popolare gestita tramite infiltrati e internet. Cose note.

L’operazione ha avuto un esito significativo, ma parziale. Non ha reiterato i fasti del golpe che decretò la caduta di Mossadeq ed elevò sugli scudi il sanguinario scià Reza Pahlavi (ripetizione dell’uguale: speravano di sostituirlo con il figlio, che si è candidato a tale scopo). Né ha eroso in modo significativo le risorse militari iraniane. I generali sono stati sostituiti in fretta e i missili sono iniziati a piovere su Israele.

Il fallimento di tale strategia è evidente nell’appello pubblico lanciato agli iraniani da Netanyahu perché si ribellassero, tanto simile a quello lanciato da Putin quando fallì la prima ondata di attacchi sull’Ucraina (sul punto vedi Piccolenote). Solo che la Russia aveva un piano B, e pure vincente.

Il piano B di Netanyahu era l’intervento Usa, che ancora non c’è stato. Era sicuro che Trump avrebbe ceduto di schianto. Così non è stato, tanto da costringere Israele a una mossa del tutto insolita nel suo rapporto con gli States, chiederne formalmente la discesa in campo.

Nel frattempo, i missili piovono su Israele e a Tel Aviv si sono accorti che l’Iron Dome poco può fare. Peraltro, finora Teheran ha usato i più vecchi, ora iniziano a pioverne di più moderni (Ctrana), anche se non ancora i più potenti.

La Russia si coordina con la Cina

Uno scambio di colpi che potrebbe finire. L’Iran, ha rivelato il Jerusalem Post, ha trasmesso agli Usa, tramite Oman e Qatar, una proposta per chiudere la vicenda, a patto che Israele si “calmi”.

Da vedere se Trump coglierà l’occasione, ma per ora non sembra. Infatti, Politico spiega che a spingere di più per l’attacco è il Capo del Centcom Erik Kurilla (soprannominato “gorilla”), consegnato alle fumisterie criminali dei falchi.

E, purtroppo, sembra sia lui l’uomo più vicino al capo del Pentagono Pete Hegseth, che ha accolto tutte le sue richieste ignorando gli appelli alla moderazione del Capo degli Stati Maggiori congiunti, generale Dan Caine, e dal responsabile delle politiche del Pentagono, Elbridge Colby.

Anche Putin ha offerto una mediazione, proponendo a Teheran e Tel Aviv un piano che salvaguarda il nucleare civile iraniano e la sicurezza di Israele. E oggi ha chiamato Xi Jinping, col quale ha parlato soprattutto della guerra Iran-Israele.

I due leader, riporta Itar Tass, hanno “concordato che nei prossimi giorni daranno istruzioni alle agenzie e ai servizi competenti dei due Paesi di restare in strettissimo contatto e di scambiarsi informazioni e considerazioni” sul conflitto.

Finora le due potenze si erano limitate a condannare l’aggressione israeliana, a chiedere una de-escalation e a mettere in guardia l’America dall’intervenire. Si tratta di un passo ulteriore, operativo. Segno che la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro.

 

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