23 Agosto 2025

La guerra di Trump allo stato profondo interessa la politica estera Usa

La guerra di Trump allo stato profondo interessa la politica estera Usa
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L’irruzione dell’Fbi nell’ufficio di John Bolton, già Consigliere per la Sicurezza nazionale, ha fatto il giro del mondo. A dare la misura dell’importanza dell’avvenimento, il profluvio di articoli publbicati sul New York Times e sul Washington Post, media che modellano la narrazione imperiale, ovviamente tutti critici dell’iniziativa del boureau, stigmatizzata come una “vendetta di Trump”, verso il quale Bolton ha indirizzato critiche ferocissime, ultime sull’incontro con Putin in Alaska e le connesse iniziative diplomatiche per chiudere la guerra ucraina.

Parlare di una vendetta di Trump non ha solo lo scopo di ribadire l’autoritarismo di Trump, ma anche quello di vittimizzare Bolton e, quindi, di evitare di rendere pubbliche le vere cause dell’inchiesta. Su queste ultime poco si sa, se non che l’indagine riguarda la sicurezza nazionale, ma sulla vittima in questione si sa tanto, essendo sugli scudi da tempo e con ruolo di carnefice più che di vittima, avendo lavorato attivamente da oltre un ventennio per spingere gli Usa in tutte le guerre consumate in questo periodo.

Per comprendere il personaggio, un ricordo di José Bustani, alla guida dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche al tempo dell’invasione irachena del 2003, il quale ha raccontato che, prima dell’inizio del conflitto, aveva convinto Saddam a sottoscrivere un accordo sull’eliminazione delle armi chimiche del suo Paese, iniziativa che avrebbe messo a tacere i tamburi di guerra.

Ma gli Stati Uniti gli intimarono di interrompere le trattative. Il resto è storia. Poco conosciuto, però, un aspetto di questa storia, quello che vide Bolton – allora ambasciatore all’Onu – precipitarsi da Bustani per assicurarsi che non interferisse più nella questione.

Bustani ha raccontato che, per chiarire meglio la determinazione americana, Bolton gli disse : “Sappiamo che ha due figli a New York. Sappiamo che sua figlia è a Londra. Sappiamo dove si trova sua moglie” (New Yorker). Tale, quindi l’inerme vittima dell’asserita vendetta di Trump…

Ma al di là delle ipocrisie narrative, resta da capire perché l’Fbi si sia spinto a indagare su una figura considerata intoccabile. Di certo la mossa s’inserisce nel redde rationem dell’amministrazione Trump contro il cosiddetto Stato profondo.

Lo dice la battaglia ingaggiata da Tulsi Gabbard, direttrice dell’intelligence nazionale, contro i membri dell’apparato che ha ereditato e che condividono la fede neocon di Bolton, diffusa tra repubblicani e democratici.

Battaglia che sembra si sia intensificata di recente: il 20 agosto, infatti, la Gabbard ha revocato l’autorizzazione di sicurezza a 37 funzionari ed ex funzionari della Sicurezza nazionale – negandogli l’accesso alle informazioni riservate dell’intelligence – mentre due giorni fa ha annunciato il taglio del 40% del personale dell’ufficio che dirige.

Tutto ciò potrebbe essere derubricato a banale lotta intestina tra nuovo e vecchio potere, quello vero, quest’ultimo, che ha gestito l’Impero al di là dei presidenti transeunti (ne racconta James Carden sul sito del Ron Paul Institute, spiegando come tale potere si sia consolidato dopo l’assassinio di JFK).

E, però, se questa è una lettura accurata di tali avvenimenti, resta da vedere se tale scontro ha riflessi nella politica estera Usa e quali. Difficile interpretare gli interna corporis imperiali, però si possono leggere alcuni indizi che potrebbero rivelare qualcosa in proposito.

Anzitutto, le coincidenze temporali. Non sfugge, infatti, che la revoca dell’autorizzazione di sicurezza ai funzionari suddetti sia avvenuta praticamente subito dopo il vertice di Anchorage tra Putin e Trump.

Indizio labile, forse, ma che va letto insieme ad un altro. Riprendiamo una rivelazione dalla CBS del 22 agosto, cioè sette giorni dopo il vertice in questione: “Gabbard ha vietato la condivisione di informazioni sui negoziati Russia-Ucraina con i partner dei ‘Five Eyes'”, l’alleanza tra le intelligence di Usa Australia, Canada, Nuova Zelanda e, soprattutto, Regno Unito.

Tali Indizi suggeriscono che l’amministrazione Trump sta cercando di eliminare l’intromissione dei falchi e del Regno Unito, il Paese che più sostiene le ragioni della guerra, dall’agenda dei negoziati ucraini.

Negoziati che, dopo lo slancio iniziale, vedono un prevedibile stallo, dal momento che forti sono ancora i venti di contrasto. Ieri Trump, nel corso della conferenza stampa dedicata alla presentazione dei prossimi mondiali di calcio (che si terranno negli Usa), è tornato sulla vicenda dichiarando che dà due settimane di tempo ai duellanti per compiere il primo passo sulla via della pace, che nelle sue intenzioni si concretizzerebbe in un incontro Putin-Zelensky.

Tanti lo hanno interpretato come un ultimatum a Putin, ma in realtà ha detto che, in caso di inadempienza, vaglierà le rispettive responsabilità prima di decidere il da farsi. Né sfugge che, durante la conferenza, ha mostrando una foto di lui e Putin, spiegando che lo zar gli ha detto che vorrebbe partecipare all’inaugurazione dei mondiali di calcio, ammiccando con simpatia al rapporto che si è creato tra i due.

In attesa, e per stare sempre alla tempistica, l’ulteriore coincidenza: nel giorno dell’irruzione dell’Fbi nell’ufficio di Bolton, è stata annunciato il licenziamento del capo della Defense Intelligence Agency, il generale Jeffrey Kruse, il quale aveva redatto il rapporto che contraddiceva le dichiarazioni di Trump sull’esito dei raid Usa contro i siti nucleari iraniani. Secondo Kruse, infatti, non erano stati completamente distrutti, come affermato dal presidente.

Anche questo licenziamento è stato fatto passare come una vendetta di Trump, ma anche questa spiegazione è parziale. Infatti, la negazione di Kruse, benché presumibilmente veritiera, mirava a tenere alto l’allarme sull’Iran, cioè a tenere aperta la strada a una guerra contro Teheran.

Se si tiene presente che Bolton da sempre sostiene la necessità di un confronto militare contro l’Iran, la coincidenza temporale con le dimissioni di Kruse suggerisce un possibile collegamento.

Anche perché nel frattempo l’Iran ha lanciato segnali distensivi nei confronti degli Stati Uniti, in particolare con la nomina di Alì Larjani a capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Politico esperto e moderato, Larjaini è stato il fine tessitore dell’accordo sul nucleare siglato al tempo di Obama.