L'attacco all'Iran può sbloccare la pace a Gaza?

“Dopo l’attacco statunitense all’Iran avvenuto all’inizio di questa settimana, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump hanno concordato di porre fine rapidamente alla guerra a Gaza e di ampliare gli Accordi di Abramo, riporta Israel Hayom, citando ‘una fonte a conoscenza della conversazione'”.
“Secondo quanto riportato dal quotidiano, Trump e Netanyahu, nel corso di una telefonata, hanno concordato che la guerra a Gaza sarebbe terminata entro due settimane. Quattro stati arabi, tra cui Emirati Arabi Uniti ed Egitto, avrebbero governato congiuntamente la Striscia di Gaza al posto di Hamas. La leadership del gruppo terroristico sarebbe stata esiliata e tutti gli ostaggi sarebbero stati rilasciati”. Così sul Timesofisrael. La telefonata è di lunedì.
La grazia a Netanyahu
“L’emittente pubblica Kan ha riferito che anche la richiesta di Trump di annullare il processo penale a Netanyahu era legata a questo sforzo”, spiega un altro articolo del Timesofisrael a commento delle bizzarre dichiarazioni del presidente americano contro il processo per corruzione che sta subendo Netanyahu in patria.
Le dichiarazioni di Trump, ha rivelato una fonte, servono a “preparare l’opinione pubblica israeliana a un atto di grazia per Netanyahu”. Evidentemente è una richiesta del premier israeliano, che da tempo tenta di sfuggire alle maglie della giustizia, come annota il media.
È noto che Netanyahu ha sabotato il processo diplomatico con Hamas perché la guerra gli assicura di restare al potere. Infatti, se la chiude, i fanatici della Grande Israele – e della soluzione finale dei palestinesi – che sostengono il suo governo, Bezalel Smotrich e Ben-Gvir, lo abbandonerebbero perché vedrebbero il loro sogno sfumare.
Non solo uno scacco politico, da cui il mago di Israele potrebbe riprendersi con uno dei suoi trucchi, ma anche esistenziale, dal momento che i suoi irriducibili nemici interni, tra cui annovera anche la magistratura, vogliono che finisca i suoi giorni in prigione. Destino che sarebbe accolto con favore, oltre che da tanto mondo, anche da Smotrich e Ben-Gvir, che avrebbero gioco facile a marchiarlo come traditore, nella speranza di coronare il loro sogno di prendere il timone della destra israeliana.
Per chiudere la guerra di Gaza, quindi, serve dare a Netanyahu una via di uscita che gli permetta di evitare tale destino manifesto e, a quanto pare, Trump ci sta provando, ma è arduo. Non ha voce in capitolo in Israele e le opposizioni hanno reagito con stizza alla sua ingerenza.
Detto questo, salvare il criminale Netanyahu sarebbe una immane ingiustizia, ovviamente, ma se è una via di uscita dall’attuale mattatoio di Gaza e dal corrispondente stillicidio della Cisgiordania…
L’attacco all’Iran e Gaza
Al di là dell’incerto destino giudiziario di Netanyahu, resta la domanda sul perché Netanyahu avrebbe ceduto alle sollecitazioni di Trump sulla pace con i palestinesi, essendo riuscito finora a resistere a ogni tentativo in tal senso.
Il perché lo riprendiamo da un titolo di Haaretz: “Trump sa di aver fatto un enorme favore a Israele in Iran. Netanyahu ricambierà con un accordo su Gaza?” Quale sarebbe questo favore? Semplice: gli ha dato l’opportunità di poter dichiarare vinta una guerra persa.
Infatti, se l’America non fosse intervenuta, Israele avrebbe ceduto. E non a lungo termine, ma a breve. Semplicemente non poteva permettersi la continua pioggia di missili, al contrario di Teheran, la cui popolazione è abituata a eventi traumatici.
Ed è più che probabile che il titolo di Haaretz sia errato nella tempistica: cioè più che di un intervento che dovrebbe essere ricambiato, è probabile che ci sia stato un accordo previo, più o meno mediato e indiretto, per cui Trump si impegnava a togliere le castagne dal fuoco al genocida israeliano lanciatosi in quell’improvvida avventura bellica in cambio della pace su Gaza.
Ciò spiegherebbe anche la tempistica affrettata dei bombardamenti Usa. Va ricordato che Trump la settimana scorsa aveva annunciato due settimane di riflessione per decidere se bombardare o meno.
Annuncio che, come avevamo scritto, ha mandato su tutte le furie i falchi anti-iraniani americani e deve aver sprofondato nella prostrazione più profonda Netanayhu, che non solo vedeva lo spettro di altre due settimane di pioggia di missili su Tel Aviv, ma anche quello delle ricadute politiche del distacco palesato da Washington, che in Israele e nel più ampio consesso ebraico globale risultano fatali.
Probabilmente, dopo tale annuncio, attraverso i canali di comunicazione che si affollano tra Tel Aviv e Washington, Netanyahu deve aver comunicato a Trump di essere pronto alla resa su Gaza in cambio della vittoria sull’Iran, che però doveva affrettarsi. Da cui l’attacco anticipato, più o meno spettacolare, più o meno concordato con Teheran, più o meno folcloristico, sul nucleare iraniano.
Incognite
Si tratta ora di vedere se i patti saranno rispettati, anche perché le incognite sono davvero tante. Perché nei patti c’è anche l’ampiamento dei Paesi che dovrebbero aderire agli accordi di Abramo, altro sviluppo che Netanyahu potrà vantare come una vittoria personale, che però vedono l’incognita sull’adesione di alcuni di essi – ad esempio l’Arabia Saudita – che aderiranno solo se nell’accordo su Gaza ci sarà una prospettiva per lo Stato palestinese (non perché gli interessi, ma perché non possono inimicarsi la masse arabe). Un vero anatema per quasi tutta la politica israeliana.
C’è poi l’incognita sul peso effettivo che avrebbe la grazia a Netanyahu, se cioè un diniego della stessa, che potrebbe darsi, farebbe saltare tutto. Infine, e solo per enunciare le incognite più rilevanti, se terrà la narrazione sull’eliminazione completa del nucleare iraniano, messa in discussione da tanti (ieri anche dalla fantomatica intelligence europea, un club ricreativo in cui gli agenti delle intelligence europee, quelle dei paesi membri, ciascuna gelosa del proprio lavoro, vanno a prendersi un tè).
Una narrazione che vacilla anche perché l’Iran giustamente ribadisce i suoi diritti sul nucleare civile e, anche per legittima dignità nazionale, minimizza i danni subiti alle sue strutture (che poi è vero). Per fortuna ieri il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, la mente più lucida del Paese, ha dichiarato che i danni sono “seri”. Se la narrazione cade, la criticità iraniana può esplodere nuovamente, mandando all’aria tutto. Da ultimo, resta da vedere se Netanyahu terrà fede ai patti: fidarsi del genocida di Tel Aviv, peraltro mal accompagnato, è arduo.
Comunque, e al netto del fatto che finora non si è visto nulla, l’accordo di cui sopra – e qualche sviluppo conseguente riservato – spiega la fiducia manifestata ieri da Trump su un possibile accordo su Gaza.
Fiducia che fa il paio con le dichiarazioni di Bishara Bahbah, l’imprenditore palestinese americano, presidente di Arab american for peace, che accompagna in via riservata il lavoro dell’inviato presidenziale Steve Witkoff: “Se Dio vuole, il cessate il fuoco potrebbe essere raggiunto in pochi giorni. Sono ottimista”.
Piccolenote è collegato da affinità elettive a InsideOver. Invitiamo i nostri lettori a prenderne visione e, se di gradimento, a sostenerlo tramite abbonamento.