28 Giugno 2013

Quando il capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò

Quando il capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò
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«Come diceva Keynes, c’è da aspettarsi di tutto, “quando il capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò”». Così Luca Gallesi sull’Avvenire del 27 giugno (titolo dell’editoriale: Se la finanza è come giocare al casinò). Per spiegare l’attuale crisi finanziaria e «per quale motivo dei titoli di stato argentini sopravvalutati oppure dei mutui nordamericani non onorati debbano costare il posto di lavoro o la pensione di molti italiani»,

Gallesi si è avvalso del saggio di un docente della Bocconi, Giuseppe Berta, che ne L’Ascesa della finanza internazionale, descrive «l’ascesa della nuova élite ottocentesca di finanzieri e il tracollo, alla fine del secolo scorso, dei rapaci speculatori yuppies»: due categorie diversissime, spiega l’editorialista, tra le quali, tuttavia, «un legame, sottile ma solido, c’è, ed è la convinzione di essere, come Tom Wolfe fa dire a un protagonista del Falò delle vanità, i Padroni dell’Universo, coloro che hanno in pugno il destino di milioni di persone, e possono permettersi il lusso di giocarselo alla roulette della speculazione».

Berta, spiega Gallesi, racconta «la storia […] dell’irresistibile ascesa», di quel mercato londinese ottocentesco nel quale «affluiscono tutte le nazioni, soprattutto quelle più giovani, che cercano credito per realizzare grandi opere […] Dal finanziamento di infrastrutture alla speculazione in titoli tossici il passo non è breve ma diviene inevitabile quando […] la brama di potere diventa insaziabile».

Dall’Ottocento ad oggi, prosegue Gallesi, «con la specializzazione e la complicazione eccessiva dei mercati finanziari, la speculazione dilaga, e due guerre mondiali non sono sufficienti a rallentare la vorticosa ascesa del capitalismo liberista, che ciclicamente e inesorabilmente miete le sue vittime, non sempre e non del tutto innocenti». Così, nota Gallesi, guardando alle ricorrenti crisi economiche dal 1886 in poi citate nel saggio, e alla loro «prevedibilità», ci si accorge che oggi «non stiamo vivendo nulla di nuovo o di imprevedibile».

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