1 Giugno 2016

Il valore nazionale delle elezioni romane

Il valore nazionale delle elezioni romane
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In tanti ci hanno chiesto delle comunali di Roma. Così, una volta per tutte proviamo ad accennare alla valenza altra di tali elezioni (oltre quella primaria, che è poi quella che interessa i romani, che è l’amministrazione della città).

 

Il centrosinistra (o meglio quel che ancora si definisce tale nonostante di sinistra, intesa come difesa del lavoro e dei lavoratori, conserva ben poco) vive queste elezioni in maniera meno drammatica degli altri. E la candidatura di una figura di secondo piano come Giachetti lo conferma.

 

Dopo il disastro del sindaco Marino, nel Pd erano persuasi che non si potesse ripetere la vittoria precedente. La guerra finale di Renzi contro Marino, nata da tanti motivi (anche extra-politici), era anche tesa a prendere le distanze dal sindaco scomodo, pur scelto dallo stesso ambito romano che oggi sostiene Giachetti.

 

La distanza temporale dalla defenestrazione di Marino ha in gran parte attutito l’effetto ombra sul nuovo candidato, ma la partita che sta giocando il Pd resta su scala nazionale. E la sua vittoria o la sua sconfitta dipende dal combinato disposto dei risultati di Roma, Milano e Napoli.

 

Se tale è la partita del Pd, altra è quella di Renzi, che invece può rilanciare anche in caso di sconfitta totale (difficile). Egli infatti ha già dichiarato che si gioca tutto nel referendum costituzionale (o anti-costituzionale che dir si voglia). Un’identificazione antropomorfa invero indebita, che rende l’idea del modo distorto con il quale è stata prodotta la riforma.

 

Per i Cinquestelle Roma è invece un trampolino denso di incognite. Il movimento è favorito dai pronostici, ma sconta la mancanza di una struttura solida che in competizioni elettorali di una certa portata ha la sua forza.

 

Ma al di là, tutto si giocherà, nel caso di vittoria, sulla sua capacità di amministrare il Comune più problematico d’Italia, che a un’estensione unica su scala nazionale somma la presenza delle più alte sedi istituzionali e del Vaticano.

 

A tali complessità si aggiungeranno gli ostacoli che di certo porranno le forze che contrastano il movimento. Se riusciranno a navigare il mare tempestoso, difficilmente gli verrà negata la vittoria nelle prossime elezioni nazionali. E questo rende ancora più ardua la partita e il contrasto.

 

Anche a destra si sta giocando una partita nazionale. Con il centrodestra ormai disfatto, Marchini sindaco sarebbe il nuovo federatore, o quantomeno il kingmaker del centrodestra. Un’opzione che influenti ambiti di destra preparano da tempo, alla quale anche Berlusconi ha dato il suo placet, in parallelo al placet dato a Renzi in cambio di un’altrettanto placida vecchiaia.

 

E come Renzi anche Marchini potrebbe essere speso per la costruzione di quel partito della nazione al quale le élite italiane, armate di squadra e compasso, lavorano da tempo. In combinato disposto o in alternativa allo stesso Renzi.

 

Anche la vittoria della Meloni, ad oggi la meno probabile, avrebbe una valenza nazionale, essendo nata nell’ambito dell’Opa che Salvini ha lanciato sul centrodestra.

Quando la neomamma ufficializzò la sua candidatura anti-Berlusconi, nell’onda lunga del family day (forse si poteva evitare), l’endorsement di Salvini suonò come uno scacco matto all’ex cavaliere.

 

E però da allora per i due tutto si è complicato. E la strana ibridazione tra Lega Nord e destra romana ha perso l’appeal da “nuovo che avanza”, che ultimamente si consuma in fretta.

Così più che correre per vincere tale Opa, la corsa della Meloni sembra destinata a conseguire un obiettivo più limitato, ovvero ricompattare sotto la sua leadership l’ambito che fu di Alleanza nazionale in un accordo più largo con la Lega.

 

Nel suo piccolo anche Fassina con la sua Sinistra italiana si gioca a Roma un destino nazionale, anche se la sua sfida sarà quella di riuscire a superare percentuali da prefisso telefonico. In caso contrario la sua creatura politica sarà morta prima ancora di nascere.

 

Se riuscirà, potrà continuare a tenere in qualche modo in vita, per quanto residuale e artificiale, una sinistra non totalmente consegnata ai poteri forti. E forse questa sfida di Roma rappresenta l’ultima spiaggia per tale possibilità.

 

Tra l’altro, la fluidità e il contrasto che abita il Pd potrebbe aprire a possibilità future.

Certo Fassina non è uno Tsipras, né tantomeno un Corbyn o un Sanders, figure in grado di attrarre e suscitare speranze. Ma tant’è: la sinistra italiana da tempo si perde a interagire con se stessa più che con gli elettori. Detto questo anche altrove scarseggiano i Cavour…

 

Insomma, queste elezioni hanno un valore nazionale difficilmente riscontrabile nel passato. E però in passato l’Italia era, nonostante tutto, uno dei Paesi più importanti del mondo. Oggi è quasi insignificante periferia.

 

Ciò ridimensiona di molto l’esito del voto in chiave nazionale, anche perché per uscire dal baratro nella quale è stato precipitato il Paese serve una politica alta, in grado di creare convergenze feconde tra diversi, sia in ambito politico che civile e imprenditoriale. E ciò si gioca su altri livelli.

 

La vittoria di uno schieramento o dell’altro fa certo differenza, ma quel che davvero serve è riuscire a innestare in un sistema al collasso variabili che pongano in essere tali convergenze.

 

Un requisito indispensabile perché ciò accada è che la politica abbandoni la propensione alla lotta continua che dal ’68 ad oggi è diventata egemone e ha devastato l’Italia.

 

Una lotta continua che è poi il teatrino nel quale è stata ristretta dai poteri reali, nazionali e internazionali, che hanno così agio per fare i propri lucrosi interessi. Concedendo a tanti figuranti della politica loro conniventi,  a premio e garanzia della loro insignificanza,  libertà “vigilata”, e revocabile, di saccheggio delle briciole e/o di visibilità mediatica.

 

Così tali elezioni, pur se partecipi nelle distanze, ci vedono disincantati spettatori che coltivano, nonostante tutto, la buona speranza.

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