9 Marzo 2016

La controrivoluzione americana

La controrivoluzione americana
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Altra tornata elettorale per la corsa alla Casa Bianca. Donald Trump fa filotto e vince in Michigan, Mississippi e Hawaii, accreditandosi ancora una volta come futuro pretendente al titolo per parte repubblicana. Nel campo democratico Hillary Clinton stravince in Mississipi, ma Bernie Sanders ancora non è costretto a gettare la spugna: la vittoria in Michigan lo tiene ancora formalmente in corsa.

 

L’annuncio della rinuncia alla corsa da indipendente da parte di Michael Bloomberg, alla quale si era preparato con certa convinzione, semplifica il quadro complessivo, che vede una probabile competizione tra la Clinton e (forse) Trump e una vittoria finale della prima (così in tutti i sondaggi fatti finora).

 

Se vero, infatti, che Sanders può ancora trovare altre vittorie, il fatto che l’establishement del partito sia contro di lui, e la sua incapacità di far breccia sull’elettorato di colore, determinante in campo democratico, sembrano condannarlo.

 

Diverso il discorso di Trump che, pur maramaldeggiando nei comizi e sui competitor, trova nell’apparato del Grand Old Party il suo vero avversario. I ricchi finanziatori e i notabili del partito stanno facendo di tutto per fermarlo, anzitutto puntando sugli altri candidati repubblicani, in particolare su Ted Cruz, l’unico che ancora ha ancora qualche chanches di riuscita, almeno sulla carta.

 

Ciò, nonostante che Trump al confronto di Cruz appaia un moderato di centro. Per capirlo, e per capire la deriva psichiatrica di certa politica americana, basta guardare il video-spot del candidato del Tea Party, nel quale mangia del bacon cotto sulla canna di un mitragliatore con il quale ha appena sparato a un bersaglio (Making machine gun bacon with Cruz).

 

Il piano dei notabili repubblicani è quello di far perdere voti al bizzarro magnate in favore di Cruz e altri (Rubio), per impedirgli di arrivare al quorum di delegati necessari all’investitura automatica. A quel punto saranno loro a decidere il candidato del Gop, che non sarebbe certo Trump.

 

A tale scopo si sarebbe saldato un asse tra i neocon repubblicani e i giganti della Silicon Valley, da Apple a Google, che in una riunione segreta tenuta su un’isola della Georgia avrebbero messo a punto un piano di contrasto. La notizia dell’oscura assise, ripresa dalla Repubblica del 9 marzo, è stata resa nota dall’Huffington post.

 

Ma al di là delle incognite future, quel che sembra si possa evidenziare in questa fase è che si assiste a una vera e propria rivolta dei cittadini americani contro l’establishement dei due partiti tradizionali, incarnata da due figure che non potrebbero essere più opposte tra loro, Trump e Sanders appunto. Una rivolta fondata anzitutto contro l’asservimento di questi a Wall Street e alla grande finanza collegata (bersaglio delle invettive, più o meno intelligenti, di ambedue).

 

Una spinta che si potrebbe definire rivoluzionaria, e tale è sicuramente quella del socialdemocratico Sanders, che gli apparati politici e la grande finanza stanno contrastando con tutti i mezzi a loro disposizione: più subdoli quelli usati in campo democratico, più oscuri quelli messi in campo in ambito repubblicano.

 

Se si tiene presente che i voti sommati di Sanders e Trump, che non si sommeranno, costituirebbero di gran lunga il primo partito degli Stati Uniti, si vede come la sfida che le élite si trovano davanti sia davvero notevole.

 

Anche per questo tale rivoluzione (usiamo un termine non precipuo ma che rende l’idea) ha innescato una contro-rivoluzione dell’establishement al potere, che vede messa in discussione l’egemonia incontrastata di cui gode da decenni.

È una variabile nuova all’interno delle elezioni Usa, che di solito hanno dato vita a sfide basate su altre controversie (il ruolo internazionale dell’America, le tasse, il sistema sociale etc).

 

Non che certi contrasti del passato non siano presenti. Tanto che Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera dell’8 marzo, si lancia in un’intemerata contro le idee isolazioniste di Trump che a suo parere rischierebbero di lasciar campo libero a Putin, mentre loda l’assertività internazionale della Clinton (se poi tale assertività porterà il mondo a un nuovo confronto globale non sembra essere materia di interesse del cronista).

 

E però tali tematiche, fondanti nel passato, appaiono oggi secondarie rispetto al confronto tra cittadini ed élite (bizzarro che uno dei capi di tale rivolta vi appartenga).

Nel cuore dell’Impero si sta ripetendo quel confronto tra patrizi e plebei già vissuto da un altro Impero del passato, quello dell’antica Roma.

 

Ma questo confronto appare più sproporzionato. Le élite del nuovo Impero hanno un potere incomparabile rispetto alle masse, sia a livello militare che finanziario. E i meccanismi che regolano il sistema di potere attuale, nella loro complessità, consentono manovre più sofisticate.

 

Né la plebe attuale sembra trovare figure in grado di attuare valido contrasto. Si vede nella difficoltà di Sanders di interloquire con l’elettorato di colore, appartenente per gran parte alle classi povere, e nell’improbabile tribuno della plebe repubblicano.

 

Così i patrizi sembrano destinati a vincere. Ma la vittoria dell’apparato, di destra o di sinistra poco importa, sarà anche la vittoria delle élite sulle masse, ovvero l’esito vincente di una controrivoluzione attuata dai ristretti circoli del potere Usa contro le speranze, più o meno ben riposte, dei propri cittadini.

 

Un aspetto che non lascia ben sperare riguardo al futuro degli Stati Uniti d’America. Né sulla proiezione globale che l’Impero ha di sé, cosa che riguarda anche il futuro dei cittadini di altre nazioni.

 

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