4 Marzo 2016

L'(in)evitabile guerra di Tripoli, bel suol d'amor

L'(in)evitabile guerra di Tripoli, bel suol d'amor
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«Come ha riportato il New York Times l’8 dicembre 2015, in prima pagina, i leader politici dello Stato islamico e i pianificatori strategici stanno lavorando per provocare un intervento militare americano. Sanno per esperienza che questa provocherà un’invasione di combattenti volontari nelle loro fila, soffocherà le voci moderate e unificherà il mondo islamico contro l’America». Così Robert Kennedy, nipote del più celebre John F. Kennedy, in un interessante articolo pubblicato su Politico il 22 febbraio (la lettura integrale è istruttiva).

 

In Libia una guerra è alle porte, in alternativa a quell’operazione di polizia internazionale in supporto alle autorità locali che era nelle intenzioni. Una guerra che si sta preparando da tempo. Pianificata dall’Isis, che sta esfiltrando i suoi agenti da Siria e Iraq per costruire questo nuovo scenario.  Ma anche da Francia e Gran Bretagna, le quali, facendo asse con i neocon Usa, si stanno tirando dietro il riluttante Obama. La potenza militare degli Stati Uniti è necessaria.

 

Né il presidente Usa ha modo di frenare le spinte belliciste dei suoi, come in parte sta avvenendo in Siria. In quest’altro teatro, infatti, la presenza della Russia funge da deterrente. Celebre la frase del Capo del Dipartimento di Stato Usa, John Kerry, che, pressato dai sauditi che chiedevano un intervento in Siria, ha risposto:  «Che volete che faccia? La guerra ai russi?».

 

In Libia tale deterrente non c’è. Restava il problema di far trangugiare la pillola all’Egitto e all’Italia, i Paesi più spaventati dalla destabilizzazione del Paese. L’assassinio di Giulio Regeni, al di là delle motivazioni del crimine, è stato usato allo scopo: ha fatto bisticciare Roma e il Cairo e ha messo il presidente egiziano al-Sisi in un angolo.

 

Bizzarro, o forse no, che chi sta spingendo per un intervento di destabilizzante-stabilizzazione in Libia siano gli stessi ambiti che l’hanno precipitata nell’attuale inferno.

Non è solo una questione di petrolio, che pur muove. Le guerre di un tempo si facevano solo per interessi. Biechi eppure, al fondo, circoscritti. In gioco in questa guerra c’è altro e più profondo.

 

Bloccata, almeno in parte, la spinta del conflitto in Iraq e Siria (e occorre far attenzione alla precaria stabilità del Libano), serve rilanciare quella guerra infinita che alcuni ambiti internazionali ritengono necessaria alla prosperità dell’Impero (che si identifica solo in parte con l’egemonia globale di Washington),

 

L’assertività dell’Isis in Libia è giunta provvidenziale per il rilancio di tale strategia. Questo nonostante il “nemico necessario” sia davvero poca cosa: seimila elementi, quattro gatti insomma. Una cosa che l’esercito del Burkina Faso potrebbe liquidare in una settimana.

 

Invece si può scommettere che l’immane potenza di fuoco delle potenze interventiste,  per un’inevitabile eterogenesi dei fini, riuscirà nel magico intento di moltiplicare i nemici, come accenna Kennedy nel passo riportato.

 

E l’Italia? A quanto pare nel Bel Paese sembra si stia replicando quel che avvenne alla vigilia della prima guerra mondiale, quando Sidney Sonnino stipulò nel segreto un accordo con la Gran Bretagna per un intervento italiano contro gli austro-ungarici.

 

C’era da far decidere a quel passo il riluttante governo italiano, e preparare gli italiani. I giornali, anzitutto il Corriere della Sera di Albertini, iniziarono a incalzare il governo. L’interventismo divenne il verbo (con la v minuscola). E il verbo divenne tragica realtà. Un copione che si ripete.

 

Infine, serviva il casus belli. Ed è arrivato. I poveri Fausto Piano e Salvatore Failla sono due vittime sacrificali che gli strateghi dell’Isis, o chi per loro, hanno immolato sull’altare del dio di una guerra di cui sanno che necessitano anche i loro avversari. Anche all’Isis serve un nuovo conflitto per rilanciarsi, dopo il freno subito in Siria e Iraq.

L’apertura di un nuovo fronte non solo allargherebbe la sua influenza nell’area (rafforzando anche Boko Haram in Nigeria, attualmente meno assertivo), ma li rilancerebbe anche lì.

 

Tutto pronto, quindi, per il nuovo capitolo della guerra infinita, le cui variabili sono anch’esse (quasi) infinite. Va da sé che per ogni bomba che cadrà in Libia, il rischio di attentati nel nostro Paese salirà. È questo lo scenario che si prospetta e che i cantori della guerra tendono a derubricare come un pur triste corollario di un conflitto (in)evitabile.

 

Così chiudiamo con un passo di una vecchia canzone di Franco Battiato, Lettera al Governatore della Libia: «I trafficanti d’armi Occidentali/ passano coi Ministri accanto alle frontiere/ andate a far la guerra a Tripoli».

 

 

 

 

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