5 Gennaio 2015

Gaudenzio Ferrari, cappella dei Re Magi, Varallo

Gaudenzio Ferrari, cappella dei Re Magi, Varallo
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Quello che vedete è un re davvero fuori dall’ordinario. Ma è proprio un re. Si tratta di un particolare della più commovente rappresentazione dei Magi che io conosca. Siamo al Sacro Monte di Varallo (un posto che almeno una volta nella vita bisogna aver visto: “l’ottava meraviglia del mondo” lo ha definito Toni Servillo).

 

Siamo per la precisione alla quinta cappella, quindi ancora nel bosco, all’inizio di quel lungo percorso che, cappella dopo cappella, rappresenta tutta la vita di Gesù. Siamo anche all’inizio, dal punto di vista della storia, di quel cantiere che sarebbe poi continuato per quasi due secoli. E siamo soprattutto nel punto in cui l’idea del Sacro Monte aveva preso la sua forma compiuta di pittura e scultura per rendere più verosimile e coinvolgente possibile la storia che vi veniva rappresentata.

 

Il merito di questa intuizione va tutta a colui  che è artefice di queste prime cappelle, Gaudenzio Ferrari, che fu sia pittore che scultore e che lavorò al Sacro Monte tra 1520 e 1530. Per capire quest’immagine del re arrivato insieme agli altri due a rendere omaggio al Bambino, bisogna immaginare di trovarsi in loco. Il gruppo dei Magi è infatti disposto per il lungo e così il pellegrino entrando nel nucleo di cappelle che compongono Betlemme, si trova a camminare al loro fianco, nella stessa direzione. Una volta non c’erano grate in queste prime cappelle del Sacro Monte, e quindi possiamo immaginare l’immedesimazione che si veniva a stabilire tra le sculture realizzate a dimensione naturale e rese ancor più verosimili dall’uso di vestiti e di capelli e barbe vere, e il fedele salito sin lassù.

 

Dunque si cammina risalendo il corteo, e quando si arriva in testa, ci si trova di fronte a questa immagine straordinaria del primo re, che togliendosi il cappello rende omaggio al Bambino, che sta nella grotta, in una piccola, angusta cappella “scavata” proprio di fronte. Accade così che noi ci troviamo proprio nel mezzo, tra quel re e l’oggetto del suo sguardo e della sua devozione. Quindi non più spettatori, ma testimoni.

 

E in quel momento a parlare e a parlarci è lo sguardo di questo re, che con una mano tiene il dono (il calice con l’incenso), e con l’altra si toglie il cappello, con un gesto di umiltà tutta istintiva e non prevista da nessun cerimoniale. La sua è una semplicità di uomo che non ha problemi a farsi piccolo, perché in quel momento consiste tutto nella realtà che ha davanti a sé. Ad accrescere poi la nostra commozione, ci pensa l’arte così umana di Gaudenzio Ferrari. Nelle sue mani la terracotta si impregna di tutta la tenerezza di quell’istante, quasi vibrando come può vibrare la fibra di un uomo davanti allo spettacolo del Dio fattosi Bambino.

 

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