5 Febbraio 2016

Paul Gauguin, Donna thaitiana con fiore

Paul Gauguin, Donna thaitiana con fiore
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Confesso di avere avuto sempre qualche problema a capire un grande artista come Paul Gauguin. Mi ha sempre infastidito quel suo esotismo, quella sua propensione a prendere sempre il largo dalla realtà. Ma siccome l’arte non sta mai dentro lo schema che ci si era fatto, a volte succede che davanti ad un’opera d’arte tutte le riserve e i pensieri acquisiti vacillino. Un’esperienza che mi è accaduta di recente alla piccola mostra milanese dedicata a Gauguin e al suo senso del primitivo.

Il quadro in questione si intitola Donna thaitiana con fiore ed è stato dipinto nel 1894. Un quadro istintivamente bellissimo, dipinto con una mano che dimostra una “felice facilità”. La modella era una ragazza thaitiana, che all’inizio si era rifiutata energicamente di posare e che dopo un’ora era tornata da Gauguin, agghindata con uno di quei vestiti che i missionari distribuivano per evitare che le ragazze girassero nude: un camicione all’europea che era stato ribattezzato “Mother huber dress”.

La ragazza lo indossa con assoluta naturalezza, come se fosse stato il suo modo di vestire da sempre. E qui veniamo al punto: Gauguin fuggendo dall’Europa stava cercando qualcosa che è stato definito primitivismo, cioè una sorta di condizione umana depurata dai guasti della civiltà. In realtà qui ci accorgiamo che la ragazza sta posando con la solennità e la sicurezza che si può trovare, ad esempio, nella ritrattistica rinascimentale.

Ha una presenza forte, uno sguardo saldo e per nulla ingenuo. Insomma, non siamo di fronte ad un’opera che cerca di rifugiarsi in un’ingenuità perduta. Più ci si addentra in un’opera come questa e più si intuisce quale fosse il “problema” da cui Gauguin  voleva liberarsi: era l’Europa in quanto concetto culturale, in quanto peso di un passato che toglieva libertà. Non a caso Gauguin ha sempre avvertito di non cercare significati o contenuti nelle sue opere. E non a caso sosteneva che le sue opere nascevano dal suo cervello e non erano quindi uscite da una delle “gabbie” stilistiche in cui si cercava di organizzare la storia della pittura europea.

Gauguin sente come soffocanti gli orizzonti in cui la pittura doveva dotarsi di un significato che, se non era legato al contenuto, era legato alla scelta di uno stile. Per questo molla gli ormeggi e se ne va in pieno Pacifico, non per un azzeramento, ma per dare alla sua pittura il respiro della libertà. Così gli può capitare di dipingere una autoctona, che certo non sapeva chi fosse Raffaello, proprio come avrebbe potuta dipingerla Raffaello. Con la stessa consapevolezza e la stessa forza: quindi Gauguin non azzera né s’inselvatichisce.

Cerca invece come una sorta dì verginità del mondo, una condizione di attesa pura. Cerca quella semplicità risoluta e nient’affatto ingenua che è propria di ogni inizio. Lo schianto di quel giallo sullo sfondo è in fondo l’eco di questo big bang dell’umano che Gauguin mette in scena con la sua pittura.

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