30 Ottobre 2013

Israele e Palestina, la pace è possibile?

Israele e Palestina, la pace è possibile?
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Stavolta sembrano fare sul serio. Le trattative di pace tra Israele e Palestina – riavviate lo scorso luglio, dopo la riconferma di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti e la formazione del nuovo governo israeliano – procedono di buona lena, ad un ritmo che non si vedeva da anni, forse dai tempi di Camp David.

Tredici “round” di colloqui tra la fine di luglio e la metà di ottobre, tre solo nei quattro giorni precedenti l’arrivo di John Kerry, il segretario di Stato americano, da questa parte dell’Atlantico. L’obiettivo è quello più ambizioso: un accordo complessivo, un vero trattato di pace, in cui Israele e Palestina si riconoscono a vicenda come Stati.

Nell’ultimo mese i media internazionali hanno rilanciato più volte la notizia che “i colloqui sono sul punto di fallire”. Da un certo punto di vista, è quasi un buon segnale. Le trattative sono entrate nel vivo. Si stanno discutendo questioni molto concrete, dalla gestione della frontiera con la Giordania al controllo dei pozzi d’acqua. Non c’è da sorprendersi se, nel discutere affari così delicati, i dissidi siano all’ordine del giorno.

L’America sta investendo molto sul processo di pace. A inizio ottobre la squadra dell’inviato statunitense in Medio Oriente, Martin Indyk, è stata sensibilmente potenziata, con l’arrivo di alcuni pesi massimi come il generale John Allen, l’uomo scelto da Obama per gestire il ritiro americano dall’Afghanistan. Kerry, durante la sua visita a Roma, ha trascorso sette ore col premier israeliano Benjamin Netanyahu (che invece non è riuscito a incontrare papa Francesco): c’era in ballo la questione iraniana, ma il tema dei colloqui di pace è stato affrontato a fondo. E nel fine settimana il governo israeliano ha mantenuto fede alla promessa, siglata a luglio, di liberare altri 26 prigionieri palestinesi dalle sue carceri.

Lo stesso Kerry sta dimostrando una determinazione particolare nel portare a termine i negoziati entro i nove mesi prestabiliti. La scorsa settimana, a Parigi, il segretario di Stato ha incontrato i suoi omologhi dei paesi arabi. Tra questi, il Qatar ha annunciato una donazione di 300 milioni di dollari all’Autorità palestinese, in perenne difficoltà economica. Benissimo, ha risposto Kerry, i soldi qatarini sono i benvenuti. Basta che il denaro non si trasformi in un “contentino” per i palestinesi in caso di fallimento delle trattative: «Nessun aiuto economico può sostituire gli sforzi verso la pace», ha detto il capo della diplomazia americana.

Kerry ha ben presente che, col procedere delle trattative, si intensificano anche le resistenze. Hamas teme che la pace consacri la linea moderata del presidente palestinese Abu Mazen, e continua a osteggiare le trattative. In Israele due dei cinque partiti di governo – il partito della Patria ebraica del ministro dell’Industria Naftali Bennett e Yisrael Beitenu, guidato dal “falco” Avigdor Lieberman – sono contrari a qualsiasi accordo.

Il 20 ottobre un gruppo di ministri (tra cui quelli della Patria ebraica, di Yisrael Beitenu e la destra del Likud, il partito di Netanyahu) ha approvato una proposta di legge per fare in modo che qualsiasi accordo sullo status di Gerusalemme debba essere ratificato da una maggioranza dei due terzi del parlamento israeliano, la Knesset. In pratica l’estrema destra – quella dei partiti religiosi e nazionalisti – avrebbe diritto di veto su ogni decisione riguardante la città.

I due partiti più moderati della coalizione – quello di Tzipi Livni, ministro della giustizia e capo-negoziatore coi Palestinesi, e quello di Yair Lapid, ministro delle finanze e “uomo nuovo” della politica israeliana – si sono mossi immediatamente per fermare il tentativo della destra di deragliare le trattative. Ma il colpo più duro alla linea oltranzista è arrivata dagli elettori israeliani.

Lieberman (già ministro degli esteri, oggi sotto processo per corruzione) ha tentato il colpo grosso: far eleggere uno dei suoi come sindaco di Gerusalemme, grazie al sostegno della destra religiosa. Moshe Lion prometteva una politica aggressiva di nuovi insediamenti a Gerusalemme est, in territorio palestinese: niente di peggio, nel mezzo di una trattativa così delicata. Non che il suo rivale, il sindaco uscente Nir Barkat, non sia stato un sostenitore delle nuove colonie, durante i cinque anni di mandato. Ma Barkat è considerato un pragmatico: a Lieberman, per dirottare i negoziati, serviva un “duro e puro”. Il colpaccio, però, non è riuscito: il voto del 22 ottobre ha confermato Barkat, con sei punti di vantaggio sul rivale. 

Lo scontro tra “falchi” e “colombe”, in Israele, è destinato ad andare avanti. Ma i sostenitori della trattativa possono contare su alleati importanti, anche sulla scena internazionale. Il 17 ottobre, in Vaticano, Abu Mazen si è visto regalare una penna da papa Francesco. «Spero di firmarci la pace con Israele», ha detto il presidente palestinese accettando il regalo. «Presto, presto», gli ha risposto il papa.

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