6 Luglio 2013

Gli artificieri e la tragica "liberazione" di Aldo Moro

Gli artificieri e la tragica "liberazione" di Aldo Moro
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Nuove rivelazioni sul caso Moro sono rimbalzate sulla stampa nei giorni scorsi, alimentando interrogativi. D’altronde i punti oscuri della vicenda restano tanti, nonostante i brigatisti “pentiti” abbiano spiegato nei minimi dettagli come siano andate le cose. Ma ormai è accertato che negli anni hanno mentito su tutto, consegnando agli investigatori, e alla storia, versioni menzognere di quanto accaduto in quei giorni.

Le nuove rivelazioni giungono dai due artificieri convocati sul posto in quel fatidico 9 maggio: Vitantonio Raso e il suo capo, Giovanni Circhetta, pubblicate dall’Huffington Post.
Vitantonio Raso racconta che sarebbe giunto in via Caetani a bordo di una volante della polizia passata a prelevarlo. Avrebbe dovuto controllare una Renault 4 ivi parcheggiata, per verificare se celasse ordigni, ma nell’ispezione scopre invece il cadavere di Aldo Moro. Sono circa le 11 quando questa operazione si svolge, mentre nel frattempo arriva anche il suo capo, Circhetta. E all’intorno ci sono già poliziotti, carabinieri e uomini delle istituzioni. Tra i quali anche il ministro degli Interni Francesco Cossiga, almeno così ricorda Raso. L’orario è decisivo: gli uomini dello Stato si sarebbero trovati in via Caetani tra le 10.30 e le 12, quindi ben prima che le brigate rosse comunicassero la notizia dell’assassinio dello statista, comunicazione avvenuta tramite una telefonata effettuata alle 12.13.

 

I quotidiani hanno diffuso le rivelazioni dei due artificieri, imperniando i loro resoconti sul fatto che Cossiga, se vera la ricostruzione, avrebbe saputo del tragico epilogo del sequestro ben prima della comunicazione delle Br. E si sono soffermati sul mistero della lettera che, secondo il resoconto degli artificieri, si sarebbe trovata nell’auto, e in seguito sparita.
La presenza in loco di Cossiga è certo importante. Ma potrebbe avere una spiegazione diversa da quella di individuare nel ministro degli Interni il grande vecchio del caso Moro.

Certo la presenza di Francesco Cossiga sulla scena prima della comunicazione ufficiale dei terroristi, se confermata, è cosa anomala, ma potrebbe avere diverse spiegazioni, prima tra tutte una soffiata di qualche infiltrato (c’è ampia letteratura sugli infiltrati nelle fila dei terroristi, alla quale rimandiamo). L’operato di Cossiga – democristiano ma di rito Atlantico – nella vicenda Moro presenta molti lati oscuri. Ma di fronte a rivelazioni ancora da approfondire occorre doverosa prudenza.

 

La possibile sparizione della missiva, che ha appassionato i media, invece, non ci sembra avere eccessiva importanza: di lettere Moro ne ha scritte tante durante la prigionia. Quella eventualmente trafugata avrebbe potuto contenere rivelazioni importanti, certo, ma poteva anche essere analoga alle altre note. Quindi non ci soffermeremo sul caso della “missiva sparita”.

 

Invece, nel racconto degli artificieri c’è ben altro, che merita molta più attenzione di quanto gli sia stata dedicata. Così Vitantonio Raso accenna nella sua ispezione: «Nella parte anteriore notai subito qualcosa che rendeva pericolosa l’auto: oltre a della sabbia nera, dei bossoli esplosi erano posti sul tappetino anteriore sia dal lato guidatore che passeggero».

La presenza di sabbia, secondo Raso presente in gran quantità anche nel bagagliaio, conferma la tesi che lo statista sia stato detenuto in una località di mare. Come d’altronde era stato appurato al tempo dalle perizie effettuate sia sulla R4, sia sul cadavere di Moro, e recentemente ricostruito in un articolo dell’Espresso, ripreso anche da Dagospia (vedi).
Il particolare suscita interesse perché, tra l’altro, smentisce ancora una volta la versione dei brigatisti pentiti e pone ulteriori domande su quanto successo effettivamente in quei terribili giorni.

 

Ancora più importante, invece, risulta la rivelazione riguardo ai bossoli: il fatto che si trovassero sui tappetini anteriori dell’automobile indica che i colpi sono stati esplosi dall’interno della R4. Un particolare che combacia con la perizia balistica redatta ai tempi (ne abbiamo accennato anche in un articolo del nostro sito, nel quale riportavamo sia le conclusioni del libro di Forlani, la Zona Franca, sia la sintesi del romanzo di Alberto Franceschini – uno dei fondatori delle Br – ambedue convergenti sul fatto che Moro era stato effettivamente liberato).

Viene smentita così la ricostruzione dei brigatisti, i quali hanno sempre raccontato che Moro è stato ucciso nel garage del covo di via Montalcini, mentre si trovava nel portabagagli della R4.

Il particolare è importante, anzi fondamentale: Moro ucciso nel garage implica che quella dello statista è stata esecuzione avvenuta dopo una deliberazione in tal senso dei terroristi. Invece altro è se è stato ucciso durante il tragitto o dopo che la macchina è stata parcheggiata; in questo caso non cambia solo la dinamica, ma la storia: Moro viene caricato in auto per essere rilasciato, dopodiché, durante il trasferimento o dopo aver parcheggiato, qualcuno dei brigatisti, Mario Moretti per fare un nome non a caso, lo uccide proditoriamente, violando quanto stabilito e mettendo i suoi compagni di fronte al fatto compiuto.

Un’altra circostanza sembra confermare la dinamica dell’uccisione. Questo il racconto di Giovanni Circhetta: «Il sedile posteriore era sganciato e leggermente reclinato verso l’interno della vettura. Questo non era casuale in quanto quando Moro fu fatto salire, per evitare che chiudendo il portellone questo sbattesse contro il suo corpo, la testa sfruttava quell’ulteriore spazio facendo allontanare dal portellone il resto del corpo».

La spiegazione data a posteriori dall’artificiere, frutto di una sua deduzione, convince, ma fino a un certo punto. Se Moro fosse stato assassinato nel garage, una volta ucciso, il sedile sarebbe stato riagganciato. L’alternativa era portare un cadavere in un portabagagli malfermo in giro per le vie di Roma. Una brusca frenata, per fare un esempio, e il peso del cadavere avrebbe travolto il sedile e messo in difficoltà i conducenti. Una scena comica, se non fosse stata tragica.

Convince più un’altra spiegazione: nel momento di sparare dall’interno dell’auto, l’assassino ha sganciato il sedile del portabagagli per reclinarlo e consentire un tiro più agevole.

 

Insomma le rivelazioni dei due artificieri svelano un nuovo scenario, già accennato in alcune pubblicazioni. Vuol dire che le frenetiche trattative poste in essere in quei terribili giorni – su una delle quali, quella ad opera della Santa Sede, parlò ampiamente Andreotti in un convegno – erano andate in porto. Ma che qualcuno, alla fine, ha giocato sporco, al rialzo, come accennava il giornalista Carmine Pecorelli, in un articolo pubblicato nel gennaio del ’79 su Op, del quale pubblichiamo la parte conclusiva:

 

«…Perché Cossiga era convinto, crediamo (?) che Moro sarebbe stato liberato e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era insieme agli altri notabili D.C. a Piazza del Gesù in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In Macchina. A questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le brigate rosse ci sarebbero state. Come per i feddayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? presso un comitato? presso un santuario?), i “carabinieri” (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le BR avrebbero ucciso il Presidente della Democrazia Cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio [nome di battaglia di Moretti ndr.]».

 

Vale la pena, al termine di questa analisi, tornare a un punto già trattato per tentare alcune deduzioni, che certo, lo diciamo in premessa, hanno meno valore di quanto esposto in precedenza, nondimeno hanno una loro logica.

 

Se vero lo scenario della liberazione dello statista, la presenza di Cossiga in via Caetani prima della telefonata brigatista potrebbe essere inquadrata nell’ambito dell’accordo stretto con le Br. Fu lo stesso Cossiga a rivelare, anni dopo la tragedia, che durante il sequestro erano stati elaborati due piani: quello Mike, da attuarsi nel caso della morte di Aldo Moro, e quello Viktor, da eseguire nel caso in cui questi fosse uscito vivo dal carcere brigatista. Quest’ultimo piano prevedeva che lo statista, prima di essere riconsegnato al Paese, dovesse essere ricoverato «immediatamente» in una clinica, il luogo del rilascio isolato e via dicendo (vedi articolo).

È possibile, quindi, che Cossiga fosse lì proprio per sovraintendere all’esecuzione del piano Viktor, ma che la polizia, trovando qualcosa che non quadrava – forse l’assenza di un segnale in precedenza concordato con i carcerieri di Moro –, avesse avuto timore di una trappola. Da qui la richiesta d’urgenza di artificieri, non presenti in precedenza, dal momento che erano inutili in caso di rilascio (mentre la presenza immediata di artificieri sul luogo del crimine era contemplata nel piano Mike, «per scongiurare eventuali trappole esplosive»).

Si spiegherebbe, in questo scenario, anche la telefonata ritardata ad opera delle Brigate rosse. In caso di rilascio del prigioniero non era prevista alcuna telefonata di rivendicazione immediata: la liberazione di Moro doveva avvenire in segreto (come in segreto era avvenuta la trattativa), per dare tempo alle istituzioni di ricoverare lo statista in clinica e altro. Solo in un secondo momento sia lo Stato che le brigate rosse avrebbero dato al Paese la notizia, ognuno a suo modo.

Anche il fatto che Cossiga non fosse rimasto stupito quando Raso gli comunica il ritrovamento del cadavere di Moro, come ha raccontato lui stesso, potrebbe non essere indizio di qualcosa di oscuro: il Ministro degli Interni sapeva bene che sull’auto c’era l’esponente della Dc. E probabilmente, date le circostanze, ne aveva intuito il tragico destino.

 

La svolta impressa da Moretti cambia le cose anche in ambito brigatista. Questi deve comunicare ai suoi quanto avvenuto, costringendoli a rivendicare l’uccisione di Moro.

Perché i brigatisti accettano di rivendicare l’azione di Moretti? Semplicemente perché non hanno scelta. Non solo perché Moretti era il dominus delle brigate rosse – come testimonia tanta letteratura dedicata al personaggio, caratterizzato da ampi rapporti internazionali – e non semplicemente un capo. Ma anche perché, messi di fronte al fatto compiuto, i brigatisti non potevano sconfessarlo, dicendo al mondo che il loro capo aveva tradito le deliberazioni del direttivo. Sarebbe stata la loro fine politica; dichiarata al mondo, oltretutto, proprio nel momento apicale della loro avventura “politica” (le virgolette sono d’obbligo). Invece, la rivendicazione dell’uccisione dello statista, in un’ottica malata, avrebbe potuto consegnare alle Br la leadership incontrastata del movimento rivoluzionario al quale facevano riferimento: Lotta continua, Potere operaio e le altre e varie sigle della sinistra extra-parlamentare (tra l’altro, alla Sapienza, alla notizia dell’uccisione di Moro, si esultò).

Solo in un secondo momento, quindi, dopo essere stati informati e aver deciso di assecondare Moretti, i terroristi rivendicano l’assassinio, attraverso la telefonata di Morucci, che la esegue con la metodicità di un funzionario statale (anche questo particolare è importante, per capire la libertà che si respirava all’interno del nucleo brigatista che ha rapito Moro).

È solo uno scenario, ovviamente, una «teoria cervellotica, campata in aria…», per dirla con Pecorelli. O forse no.

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