19 Marzo 2015

L'eccidio tunisino

L'eccidio tunisino
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«Questa guerra non è solo nostra, quel che accade in Siria avrà ripercussioni in tutto l’Occidente». Era il febbraio del 2013 quando in un articolo su Piccolenote riportai questa frase di Osama Saleh, un siriano che era venuto in Italia a parlare della follia di una guerra che stava consumando la sua patria. Questioni geopolitiche: per tanta parte di mondo, occidentale e arabo, Assad era un problema da rimuovere. Da qui la guerra alimentata dall’estero per rovesciarlo.

 

Per anni, la guerra inizia nel 2011, l’Occidente e i Paesi arabi hanno reclutato mercenari in tutto il mondo, li hanno addestrati e li hanno mandati a combattere in Siria, fornendo loro armi e soldi. Cosa che continua ancora oggi.

Questo il quadro nel quale va collocato l’attentato avvenuto ieri in Tunisia, dove alcuni agenti dell’Isis, tre o forse di più, hanno fatto strage, uccidendo turisti indifesi, tra i quali due italiani (ma altri due al momento risultano ancora dispersi).

 

In realtà, sembra che l’obiettivo dell’attentato fosse il Parlamento tunisino. Respinti, gli agenti dell’Isis hanno attaccato i turisti del museo del Bardo, che conserva opere dell’antichità mediterranea, un «museo-simbolo dell’incontro fra civiltà», come recita un titolo di Repubblica. Obiettivo secondario dell’attentato, e però anche questo altamente simbolico, perché questo eccidio mira a rendere sempre più difficile proprio questa possibilità di un incontro tra civiltà, di dialogo tra diversi, nel nome di quello scontro di civiltà profetizzato, profezia auto-avverata, da Samuel Hungtinton in una celebre opera.

 

Per questo motivo, anche, si voleva colpire il Parlamento tunisino: perché nelle recenti elezioni presidenziali ha vinto un candidato laico, Beji Caid Essebsi, il quale, forte dell’appoggio popolare, ha portato il Paese fuori dalle secche di uno scontro permanente tra islamisti e laici, trovando anche il consenso, a volte dichiarato a volte tacito, dell’islam locale. Un’aberrazione per gli integralisti che, nonostante la marginalizzazione dall’arena pubblica, hanno continuato a imperversare con azioni terroristiche che però, almeno fino a ieri, erano rimaste confinate ai margini del Paese.

Tra l’altro, e non è un caso, l’attacco è avvenuto proprio mentre il Parlamento stava discutendo dell’emergenza terrorismo, per cercare vie di contrasto nuove e più efficaci.

 

Per chi sta alimentando lo scontro di civiltà, la Tunisia, proprio per la sua storia recente, è un obiettivo strategico per cercare di convincere il mondo che la convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani, queste le religioni più importanti del Mediterraneo, è impossibile.

Si tratta di rendere più ampi i punti di divergenza, innestare conflitti, allargare le faglie tra un ambito socio-religioso e l’altro per scatenare terremoti la cui portata sarebbe devastante.

 

L’attacco, inoltre, intendeva rendere più difficile, con la sua portata destabilizzante, l’operazione di stabilizzazione della Libia, Paese confinante alla Tunisia caduto nel caos dopo l’intervento Nato. Dalla Libia, tra l’altro, da tempo partono attacchi contro il territorio tunisino – miliziani aderenti alle tante sigle del caso – dimostrando che il caos non può restare confinato, ma per sua natura tende a tracimare.

Proprio agli inizi di questa settimana c’era stata una piccola svolta: in Egitto si era discusso di come stabilizzare la Libia coinvolgendo i Paesi arabi, Egitto in primis. Qualcuno ha voluto lanciare un messaggio in senso contrario su questa possibilità.

 

Iraq, Libia, Siria, tre Paesi che sono diventati un tumore che, lentamente, sta rilasciando le sue metastasi in giro per il mondo. Stabilizzare la Libia e l’Iraq, come anche chiudere l’annoso conflitto siriano (da cui è partita tutta questa follia che negli ultimi anni sta dilagando nel mondo arabo e terrorizzando l’Occidente – e così torniamo all’inizio del nostro articolo) sono i rimedi principali per poter iniziare a curare tale malattia. Se il tumore cresce, le metastasi saranno sempre più numerose e più aggressive.

 

La strada indicata al vertice di Sharm el Sheikh sembra quella giusta per risolvere il caos libico. Se l’Egitto sarà il protagonista di questa missione, un Paese che coltiva buoni rapporti sia con la Russia che con gli Usa, porterà frutti.

Per quanto riguarda la vicenda siriana non si può che partire riconoscendo la realtà dei fatti: Assad ad oggi è il più grande nemico dell’Isis e lo sta contrastando. Per questo non si può che trattare con lui, come ha accennato in questa settimana Kerry (anche se è stato subito smentito da altri ambiti dell’amministrazione Obama).

 

Infine occorre trovare convergenze con l’Iran, il cui apporto si sta rivelando decisivo per risolvere il caos iracheno, tanto che in questi giorni, grazie al sostegno di Teheran, le truppe irachene stanno riprendendo la città chiave di Tikrit, da tempo caduta in mano all’Isis. Tutto mentre la caotica coalizione anti-Isis messa su da Obama si dibatte in un inane esercizio di bombardamenti che a volte, è accaduto, sbagliano anche obiettivo, colpendo le alleate truppe irachene.

Da questo punto di vista, il negoziato per il nucleare iraniano, che dovrebbe chiudersi a breve, è di importanza decisiva, anche se la vittoria di Netanyahu alle elezioni israeliane, da sempre fieramente contrario a questa prospettiva, rende tutto più complicato.

 

Eppure non c’è altra strada: il terrorismo è una minaccia globale, al di là dei beduini ben addestrati che vengono usati nelle singole azioni. Le sue azioni non sono dettate dal caso, ma da una strategia sottesa a una visione geopolitica raffinata. Così che il suo contrasto, al di là delle misure di polizia pur necessarie, non può che passare per una strategia altrettanto globale, che preveda anche il contrasto alla finanza del terrore, intrecciata in maniera perversa con quella legale. Altrimenti continueremo a contare i morti. Con la tragica consapevolezza che si tratta di vittime di una guerra che neanche stiamo combattendo e che quindi siamo destinati a perdere. A vincere saranno i fautori dello scontro di civiltà, che non vivono soltanto nei Paesi arabi.

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