18 Ottobre 2012

Alla Foce, la sera

Tempo di lettura: 2 minuti

(Frammento su un ricordo d’infanzia)

 

All’amico pittore Jean Bourillon,

alla mia infanzia, in memoria

 

 

La vedevo alta sul mare.

Altissima.

 

Bella.

All’infinito bella
più d’ogni altra stella.

 

Bianchissima, mi perforava

l’occhio:
la mente.

 

Viva.

 

Più viva della viva punta
– acciaiata – d’un ago.

 

Ne ignoravo il nome.

 

Il mare

 

mi suggeriva Maria.

 

Era ormai la mia

 

sola stella.

 

Nel vago
della notte, io disperso
mi sorprendevo a pregare.

 

Era la stella del mare.

 

La tua stella, Jean,
così remotamente morto
con la mia infanzia, e in una
con tutta la tua opera…

 

Jean
senza fortuna…

 

Amico
(in gioia e disperazione)
dei miei sussulti…

 

Di me:
della mia diffrazione
nel tempo che ormai mi allontana
– sempre più mi allontana –
dalla nascita e – forse –
(oh Jean!) dalla mia stessa morte…

 

 

Giorgio Caproni

Giorgio Caproni – di cui quest’anno si ricordano i cento anni dalla nascita (Livorno 1912 – Roma 1990) – scrisse questa poesia nel 1985. Fa parte di una delle sue ultime raccolte di liriche (Il Conte di Kevenhüller, 1986). La grazia musicale, i versi brevi, la lingua nitida, ridotta all’osso, lontana da ogni presunzione intellettualistica (l’uso di «rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari»), l’ironia sul “fare” letterario («Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa»), sono caratteristiche essenziali della sua poetica.
L’ultima fase della produzione di Caproni viene spesso collocata dalla critica sotto il segno della “morte di Dio”, un Deus absconditus che si invoca in quanto assente, con un paradossale linguaggio “ateologico”. Interpretazioni condivisibili. Anche se, forse, le parole di Giovanni Testori più di molte altre individuano il cuore dell’opera dello scrittore: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie di Caproni [quelle del Il franco cacciatore, del 1982, ndr], sua affermazione. […] Qui la nostra poesia tocca uno dei suoi vertici: un vertice che è, insieme, una vertigine».
Affermazione, e, talvolta, preghiera, come nella lirica citata, o in questa che segue, recentemente pubblicata in una rivista:

 

Ma che ho nel petto,
cos’è che mi spacca il cuore?
Signore, Signore,
quanta fame d’amore
in me, sempre rimasto inetto
a lenire un dolore.

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