6 Ottobre 2012

Dall'immagine tesa

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Dall’immagine tesa

Vigilo l’istante

Con imminenza di attesa –

E non aspetto nessuno:

Nell’ombra accesa

Spio il campanello

Che impercettibile spande

Un polline di suono –

E non aspetto nessuno:

Fra quattro mura

Stupefatte di spazio

Più che un deserto

Non aspetto nessuno:

Ma deve venire,

Verrà, se resisto

A sbocciare non visto,

Verrà d’improvviso,

Quando meno l’avverto:

Verrà quasi perdono

Di quanto fa morire,

Verrà a farmi certo

Del suo e mio tesoro,

Verrà come ristoro

Delle mie e sue pene,

Verrà, forse già viene

il suo bisbiglio

 

Clemente Rebora

In questi versi di Clemente Rebora, tratti dalla sua seconda raccolta di poesie, i Canti anonimi, del 1922, un uomo in una stanza aspetta. Un uomo e il suo presentimento di qualcosa di buono che sta per fiorire, il presagio di sussurri di polline per uno sboccio imminente. Un arrivo discreto – un bisbiglio – atteso come ristoro nella realtà dell’esistenza quotidiana, fra le «quattro mura / Stupefatte di spazio». Don Giussani ha parlato di Rebora come di un «uomo povero; perché il “pauper evangelicus”, il povero del Vangelo, è chi, non avendo nulla da difendere […] di fronte alla verità, registra la realtà, e la realtà si presenta come un disegno […] Un uomo povero (povero di spirito nel senso evangelico) […], e questa povertà è, come ho accennato, definita nel cogliere la positività del disegno misterioso delle cose, misterioso ma positivo, in qualche modo positivo».
Nel 1929 Rebora abbandona la poesia ed entra nel Collegio rosminiano di Stresa, dove verrà ordinato sacerdote nel 1936. Tornerà a scrivere, dopo un lungo periodo di silenzio, negli anni Cinquanta, accogliendo il suggerimento dei suoi superiori. Frutto di questo lavoro saranno, tra il 1955 e il 1956, le raccolte Curriculum vitae e Canti dell’infermità. Giovanni Raboni ha visto in questi ultimi componimenti il momento in cui «la voce trova (ritrova) una tensione tutta verticale, si dispone nel senso naturale che il pensiero assume quando diventa preghiera», una «poesia che continua, incorpora e pronuncia il silenzio che essa stessa è stata».
Sono gli anni della malattia, nei quali il poeta chiede la grazia della salvezza, «quella salvezza», ha osservato Carlo Bo, «cui il poeta sarebbe arrivato […] oltre la foresta delle parole, con il balbettio umile delle parole più semplici che Dio ha dato agli uomini». Sono gli anni del ringraziamento, durante i quali, con le «parole più semplici», scrive: «Io benedico il giorno che fui nato; / io benedico il prete e il sacro Fonte, / il giorno e l’ora che fui battezzato. // Io benedico quel casto mattino / quando, gravato già di nove lustri, / mi cibai di Gesù come bambino. // Io benedico il dì che nel mio Duomo // lo Spirito discese a fare tempio / della Sua gloria anche me, pover’uomo. // Benedico quell’invito giocondo / a lasciar tutto per amor di Cristo, // scegliendo l’Ognibene sopra il mondo. / Benedico l’Amore Crocifisso / quando mi elesse a ministrare il Sangue / che al Ciel ci salva dal mortale abisso. // Bene sia sempre a chi quaggiù la voce / del Signor a seguir mi fu d’aiuto, / l’universal carità della Croce. // Per tante grazie e patimenti tanti / l’Amante Trinità sia benedetta: / con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi».

Il poeta Clemente Rebora muore a Stresa nel giorno della solennità di Ognissanti del 1957. E proprio Poesia e santità si intitola uno dei componimenti dell’ultimo periodo:

 

 

Poesia e santità

 

Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,


nell’arcana sorte

tutto è doglia del parto:

quanto morir perché la vita nasca!

pur da una Madre sola, che è divina,

alla luce si vien felicemente:

vita che l’amor produce in pianto,

e, se anela, quaggiù è poesia;

ma santità soltanto compie il canto.

 

 

 

 

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