14 Novembre 2012

El senso del mio testo

Tempo di lettura: 2 minuti

Resto solo in uficio:
la fronte contro i vetri.
Sorte da l’edificio
i miei colleghi tetri.

 

C’è sopra el tavoli’
una spasa de pratiche.
Su la sedia, ‘l cuscì
col segno delle natiche.

 

In ‘sto fondo mio morto
de piata situazione,
senza vede raporto,
ciò come ‘na visione.

 

D’un quadro me sovieno:
un scuro de taverna,
‘n omo a sede, ‘l baleno
fermo de ’na ma’ eterna

 

che chiama quela vita
fori dal suo binario.
‘Na facia sbigotita
fa quel’omo ordinario:

 

fissa la ma’ fatale
come sperso ‘nte’l niente,
ma ai ochi già ie sale
la passione splendente.

 

L’imperativo muto
de quela ma’ ‘nte’l sguardo
quanto io avria voluto
trova’, come pe’ azardo.

 

L’assenza de quel gesto
da sempre me tortura.
El senso de ‘l mio testo
è ‘na cancelatura.

 

 

Franco Scataglini

 

La consueta fine di una giornata di lavoro, le faticate carte sparse su un tavolo, il buio fuori. Nell’ufficio deserto, un uomo solo, nella cui memoria affiora la scena di uno dei capolavori di Caravaggio: “La vocazione di Matteo”. Il gesto di Gesù che chiama un altro uomo, anche lui, forse, solo, sebbene attorniato da indaffarati compagni chini sul tavolo di un’osteria. E la dolorosa «assenza di quel gesto» atteso, desiderato come la vertigine di un “azzardo”, di una scommessa d’eternità che giunga a fare compagnia nell’usuale scorrere dei giorni.
Le quartine di settenari in vernacolo anconetano sono di Franco Scataglini (1930-1994), uno tra i più importanti poeti dialettali della seconda metà del secolo scorso. Questa forma metrica, innestata nella tradizione della lirica italiana del Duecento e del Trecento, e l’uso del dialetto – di facile comprensione –, caratterizzano quasi tutta l’opera di Scataglini, la cui poesia, secondo Carlo Betocchi, «nasce con tutta la sua carne e con tutti gli echi della vita che l’hanno investita, dilettata, tormentata. La parola sorge su dalla carne ventilata del suo paese, del suo mare, delle sue donne. Nasce dal peso, natura, odore, colore, ventura e disgrazia degli oggetti che ha incontrato nel corso della sua vita».
E dall’attesa di qualcosa che l’uomo non sa trovare nel proprio cuore:

 

Vita e scritura

 

Per me vita e scritura
ene compagni, el sai,
tuta scancelatura
dopo dulor de sbai.

 

Se cerca ‘n sono lindo
drento de sé e se trova
el biatola’ d’un dindo*
spersose ‘nte la piova.

 

[* il lamentarsi di un tacchino]

 

 

 

 

Paolo Mattei

 

 

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