27 Febbraio 2013

Passo d’uomo

Tempo di lettura: 2 minuti

Povero cuore,

con la mano sul cuore, giuro,

che mai non ti vedrò

accompagnare il male

e voltare la testa

e piegare la schiena,

abbassare la testa

e abbandonare la scena.

 

Povero cuore,

come un povero scemo

apro la finestra

e sono qui che fumo,

e vivo la mia vita a passo d’uomo,

altro passo non conosco,

soltanto questo passo d’uomo.

 

Qualcuno sta aspettando

all’uscita della chiesa:

benedici il suo cappello vuoto, 

la sua lunga attesa.

È una vita che si affanna,

e cerca e ruba,

illumina il suo tempo,

insegnagli la strada.

 

Sono solo un operaio

lungo la massicciata,

il mio pane sa di polvere,

la mia acqua è salata.

E lavoro per la ruggine

e respiro il carbone,

costruisco per niente

e non ne vedo la fine.

 

Sono qui che guardo fuori

senza troppo pensare,

vedo cadere la cenere,

vedo il fumo che sale.

E non c’è niente da nascondere,

niente da svelare,

niente da tenere stretto,

non c’è niente da lasciare.

 

Povero cuore,

come uno straniero giro

la mia terra abbandonata,

abbandonato e solo.

E vado per la vita

a passo d’uomo.

Altra misura non conosco,

altra parola non sono.

 

Francesco De Gregori

Ogni tanto li vedi sulle rotaie dai finestrini del tram o del treno, all’altezza dei lavori in corso: quei cartelli bianchi rettangolari sui cui c’è scritto “Procedere a passo d’uomo”. Da lì in avanti, per qualche minuto, le cose tornano a muoversi con un andamento disteso, le pulsazioni del mondo riacquistano un ritmo regolare.

Questi versi li ha composti Francesco De Gregori. Appartengono a una canzone tratta dal suo ultimo disco, “Sulla Strada”, pubblicato alla fine dello scorso anno. Si può stare certi che il cantautore romano non li avrebbe mai antologizzati in una rubrica di poesia, perché, ha detto più volte, «le canzoni non sono poesie». Concordiamo con la sua opinione, ma in questa sezione ci concediamo qualche piccola libertà: la canzone è infatti molto bella anche soltanto nella sua parte letteraria.

È, naturalmente, una canzone felicemente lenta, come molte altre del  repertorio degregoriano. Una di quelle canzoni che, similmente al cartello sulle rotaie, pare sappiano imprimere una salutare decelerazione alla frenesia delle giornate. Uno di quei pezzi che sembrano in grado di riparare i bordi dei mille pensieri slabbrati dalla fretta, che riescono a riportare a normali dimensioni immagini che nel tempo hanno acquistato strane e inumane dismisure. 

Ascoltandola, possiamo provare a identificare il nostro cuore nel “povero cuore“, «abbandonato e solo», che qui viene cantato. Immaginarci alla finestra di casa, la nostra «terra abbandonata», mentre guardiamo fuori, la sera, dopo una giornata di fatica accelerata e dilatata. Una di quelle sere, benedette però da un luminoso tramonto, impensabile dopo un lungo giorno di pioggia, in cui la stanchezza non dispera, ma anzi ridona la giusta prospettiva ai tanti gesti compiuti – da noi, dagli altri – facendoli per un momento riconoscere per quello che dovrebbero essere: il lavoro di «un operaio lungo la massicciata», il cenno di un mendicante «all’uscita della chiesa».

All’altezza di questi versi la canzone di De Gregori prende la piega di una preghiera: «Illumina il suo tempo, / insegnagli la strada».  

Una vita in cui poter andare a passo d’uomo.

 

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