Bolton bombarda Pyongyang e Trump
Tempo di lettura: 3 minutiRiprenderanno a domani i colloqui tra Stati Uniti e Corea del Nord: ad annunciarlo sono state fonti ufficiali di Pyongyang e di Washington. Si riprende dunque a tessere la tela interrotta dopo il fallimento del vertice di Hanoi.
In una nota precedente avevamo spiegato come l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton avesse sabotato quel vertice cruciale.
Licenziato da Trump, Bolton non demorde e, alla vigilia della ripresa dei negoziati, ha tuonato contro un eventuale accordo tra Washington e Pyongyang (Reuters).
Le bombe di Bolton
In un intervento ripreso da tutti i media internazionali, come nulla fosse cambiato del suo status, ha ammonito che l’infida Corea del Nord non ha rinunciato e “non rinuncerà mai volontariamente alle armi nucleari” (nodo del negoziato: pace in cambio di uno stop al nucleare).
Da qui, secondo Bolton, l’inutilità di trovare un’intesa con Pyongyang che essa “non onorerà mai”. Il falco neocon ha poi attaccato direttamente il presidente.
Così recita, infatti la sintesi della Reuters: “Il congelamento dei test della Corea del Nord su armi nucleari e missili a lungo raggio, che Trump ha salutato come un trionfo della sua diplomazia, è giunto solo perché Pyongyang aveva terminato i test di queste armi”.
Questo matrimonio non s’ha da fare, ha dunque ammonito il don Rodrigo neocon. Non solo, l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale ha ribadito le sue vecchie convinzioni, dichiarando che a un certo punto “la forza deve essere un’opzione“.
Insomma, si torna alle vecchie, care bombe, delle quali è da sempre fautore e non solo riguardo la Corea del Nord . D’altronde quando Trump lo ha licenziato, i nordcoreani (e non solo loro) hanno salutato con sollievo la decisione del presidente Usa, plaudendo alla rimozione del “maniaco della guerra“.
A complicare la vicenda, il lancio di un missile balistico da parte della marina di Pyongyang, avvenuto a poche ore dall’inizio della ripresa dei negoziati. Iniziativa che ha suscitato polemiche. Ma, a meno di ulteriori sorprese, la trattativa dovrebbe iniziare ugualmente.
La guerra neocon
L’intemerata di Bolton contro Trump non deve stupire. Non si tratta solo di impedire un’intesa che egli ha avversato in ogni modo o di una semplice vendetta per esser stato allontanato dalla stanza dei bottoni.
Si tratta di qualcosa di più profondo, che ha a che vedere col nuovo quadro politico americano.
Il neoconservatore Bolton, con la sua esternazione, si mette semplicemente sulla scia di William Kirstol, uno dei capofila di tale ambito politico, che tre giorni fa, in un articolo di peso pubblicato sul New York Times, ha invitato i repubblicani a contrastare Trump, chiedendo loro addirittura di non candidarlo nel 2020.
Una vera e propria dichiarazione di guerra, a nome e per conto dei neocon, al presidente. Presa di posizione alla quale Bolton è stato conseguente, avviando il suo personale bombardamento contro la Casa Bianca.
Un bombardamento che serve anche a evitare che Trump riesca nel tentativo di un accordo con i nordcoreani, da tempo cercato e finora sfuggito per vari incidenti di percorso.
Trump insegue questo successo internazionale anche per poterlo usare nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Da qui anche la veemenza del contrasto, per impedirgli di avvalersi di tale carta nella lotta per la rielezione.
L’illusione dei democratici di sinistra
Può apparire bizzarro che la “guerra” contro Trump, veda i neocon alleati dei democratici, in particolare con l’ala radicale, di sinistra, quella nata sulla scia di Bernie Sanders e che ha prodotto vari candidati alla Casa Bianca.
Tale ambito, infatti, avversa l’aggressività globale dei neocon e vuole la fine delle guerre infinite da loro iniziate nel post 11 settembre. Eppure, e nonostante tutto, ora sono dalla stessa parte della barricata.
Il problema è che i radicali si illudono, rimosso Trump, di poter imporre la loro agenda a una presidenza espressione del partito democratico.
Illusione oggi confortata dai liberal del partito – i clintoniani per intendersi -, dal momento che per vincere la battaglia contro il presidente gli serve il loro apporto, dato che essi sanno interloquire e mobilitare masse sorde alle sirene liberal.
In realtà, una volta vinta la battaglia, i clintoniani lasceranno ai radicali qualche contentino di politica interna (diritti civili, sanità, ambiente, etc.), escludendoli dalle segrete stanze della politica estera, quelle che decidono le sorti dell’Impero.
In queste potranno entrare solo loro e i neocon, con i quali, pur nelle apparenti e pubbliche distanze, condividono prospettive globali.
Così l’eventuale vittoria del partito democratico nel 2020 sembra dover coincidere con il ribaltamento di forze all’interno del partito stesso e con la marginalizzazione progressiva dell’ambito radicale. Da questo punto di vista, il malore di Sanders – per fortuna prontamente curato – appare presagio nefasto.