13 Agosto 2017

Corea: il niet della Cina

Corea: il niet della Cina
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Interessante l’editoriale di Massimo Gaggi dedicato alla crisi coreana pubblicato sul Corriere della Sera del 12 agosto. Dopo aver accennato che finora si era «diffusa la sensazione che la “guerra delle parole” sarebbe rimasta tale», annota che, «a ben guardare le sortite del presidente americano, spazi di manovra sembrano essercene ancora».

 

Infatti, «Trump lancia avvertimenti ultimativi, fa intravedere scenari apocalittici ma, mentre nei giorni scorsi aveva promesso di intervenire anche contro nuove “minacce”, ora parla di “azioni” e si augura che il dittatore coreano cambi rotta».

 

«Eppure la tensione sale e l’allarme si diffonde anche in Cina (avverte Kim che se la dovrà cavare da solo e meno che non siano gli americani ad agire per primi), in Russia (che giudica molto alto il rischio di conflitto e invita chi è più forte, l’America, a essere anche più prudente e responsabile) e si fa sentire anche la cancelliera Angela Merkel (basta con l’escalation della “retorica”)».

 

Una prima nota a margine va dedicata all’inutile appello della Merkel, che nonostante sia esaltata dai media come la donna più potente del mondo resta un personaggio di seconda fila della politica internazionale. Tale il destino della Germania che ha trascinato nell’insignificanza l’Unione europea che ha egemonizzato e che pure, per storia e possibilità, potrebbe avere un peso ben maggiore nelle controversie di carattere globale. Tant’è.

 

La seconda nota, più importante, va dedicata al niet della Cina, che ha chiarito al suo instabile vicino di casa che se attacca resterà solo. Una presa di posizione netta e nuova per il Dragone, che avrà un peso non indifferente in questa crisi.

 

Il riposizionamento cinese, infatti, pone un limite insuperabile alle iniziative del giovane presidente nord coreano. Kim Jong-un sa bene che se superasse tale limite non durerebbe un’ora: se la Cina taglia i fili che la legano a Pyongyang, quest’ultima collasserebbe all’istante.

 

Detto questo, Jong-un non può semplicemente ammainare bandiera e dire al mondo di aver scherzato. Probabile che continui nelle sue provocazioni, ma nel limite di quanto ancora “accettabile”, seppur a denti stretti, dai suoi avversari.

 

In attesa che le trattative sottotraccia, che pure si stanno intersecando in maniera frenetica in questi giorni, gli forniscano una qualche via di uscita.

 

La sua improvvida agitazione nasce dal fatto che si sente minacciato dalle manovre che Stati Uniti e Corea del Sud intrecciano da anni ai suoi confini, non ultima l’installazione del sistema anti-missile Thaad.

 

E dalle incertezze che gravano sul suo destino politico: sa bene che essere inserito nell’elenco di quei Paesi che gli Stati Uniti hanno definito come “Stati canaglia” non porta bene (vedi alla voce Saddam Hussein, Muammar Gheddafi e Bashar Hafiz al-Assad).

 

Tutto sta a trovare il bandolo della matassa, stante che i suoi avversari non possono permettere che la Corea del Nord continui nella sua pericolosa corsa agli armamenti e a comportarsi come il bullo del quartiere.

 

Ma la chiusura della Cina all’intraprendenza nordcoreana segna anche un altro step in questa crisi: ormai è chiaro che nessuno può permettersi la guerra. Come ha detto il generale John Mattis, ministro della Difesa Usa, sarebbe semplicemente una «catastrofe».

 

La criticità potrà trascinarsi a lungo, certo, ma ormai è chiaro che tutti gli attori della crisi cercano una soluzione.

 

Una situazione diversa rispetto a quella che precedette la Prima guerra mondiale, per fare un paragone spesso usato a tale proposito: anche allora nessuno voleva la guerra, e però nessuno aveva piena contezza dei danni che questa avrebbe provocato.

 

Nel caso coreano è appunto il contrario: tutti gli attori della crisi hanno fatto i loro calcoli con metodo e accuratezza. E i risultati coincidono: nessun vincitore, tutti sconfitti.

 

Certo, resta la possibilità di un incidente, dell’imponderabile, ma il monitoraggio della situazione, che certo si sta dispiegando a tutti i livelli con scambi di informazioni reciproci tra Cina, Russia e Stati Uniti, riduce di molto il fattore di rischio.

 

Non si vuole indulgere in uno stolido ottimismo, del tutto fuori luogo su un tema del genere, ma solo registrare che l’assordante tintinnio di sciabole nasconde un rumore di fondo di segno diverso e un po’ più confortante. Vedremo.

 

Ps. Il 13 agosto gli Stati Uniti hanno informato che il capo di stato maggiore delle forze armate americane, generale Joseph Dunford, incontrerà lunedì il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, per poi far scalo in Cina. Nello stesso giorno, il generale Herbert McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale Usa, ha dichiarato che, al contrario di quanto appaia, «non siamo più vicini a una guerra di una settimana fa». Segnali incoraggianti.

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