7 Maggio 2022

Friedman, le magagne dell'Ucraina e la sfida alla Russia

Friedman, le magagne dell'Ucraina e la sfida alla Russia
Tempo di lettura: 4 minuti

Nella narrazione della guerra ucraina qualcosa a volte sfugge dalla penna di qualche cronista mainstream, disvelando realtà che normalmente sono occultate dalle rigide direttive della propaganda.

Così che sul New York Times accade che un autorevole cronista come Thomas Friedman, nonostante sia ovviamente favorevole ad aiutare l’ucraina, spieghi anche la necessità di conservare un prudente distacco dalla sua leadership, cosa che peraltro sta cercando di fare Biden, come afferma il cronista.

Così c’è da resistere alle manovre ucraine che, come i russi – falsità necessaria allo scritto (1) -, “vogliono coinvolgerci più intensamente” nella guerra. “Non fatevi illusioni”, scrive, infatti, Friedman, “il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha cercato di fare la stessa cosa fin dall’inizio: rendere l’Ucraina subito un membro della NATO o convincere Washington a stringere un patto di sicurezza bilaterale con Kiev” faceva parte di una strategia volta a impelagare Washington in uno scontro diretto con Mosca.

Quindi dopo aver sparso incenso alla gloria di Zelensky  annotando che “se fossi in lui, cercherei anch’io di avere gli Stati Uniti ingaggiati dalla mia parte”, aggiunge: “Ma sono un cittadino americano e voglio che stiamo attenti. L’Ucraina era, ed è tuttora, un paese affondato nella corruzione“.

Situazione che invita appunto alla prudenza, così che, non legando troppo l’America ai destini di Kiev, “non subiremo imbarazzo per la politica ucraina disordinata” che riserverà la fine della guerra.

Questo cenno alla “politica disordinata”, chiaro eufemismo, cela tanti sottintesi, come anche la prudenza evocata da Friedman, sia sul futuro, sia magari sul presente, le cui magagne potrebbero essere scoperte solo un domani (l’inesistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam fu accertata solo anni dopo la fine dell’invasione americana, solo per fare un esempio).

Se Friedman si lascia andare a queste considerazioni è per allarmare l’America sul rischio di un coinvolgimento diretto dell’America in un conflitto con Mosca, che le recenti rivelazioni giornalistiche stanno aumentando.

Ad allarmarlo sono le rilevazioni provenienti da fonti interne all’intelligence secondo le quali gli Stati Uniti hanno aiutato Kiev a uccidere alti ufficiali russi e ad affondare la Moskva. Lo scrive Friedman, ma lo sa bene anche Biden, letteralmente “furibondo” per tali rivelazioni, come annota il cronista del Nyt, tanto che ha chiamato i capi di tutte le Agenzie di spionaggio Usa per porre fine alle indiscrezioni.

Questa la conclusione dell’articolo: “Dobbiamo attenerci il più strettamente possibile al nostro obiettivo originale, limitato e chiaramente definito di aiutare l’Ucraina a espellere il più possibile le forze russe o negoziare per il loro ritiro ogni volta che i leader l’Ucraina avvertono che è il momento giusto” [cioè, finora, mai ndr.].

“Ma abbiamo a che fare con alcuni fattori più che instabili, in particolare un Putin politicamente ferito. Vantarsi di aver ucciso i suoi generali e di affondare le sue navi, o innamorarsi dell’Ucraina in modi che ci invischierebbero per sempre con essa, è il culmine della follia”.

Abbiamo più volte accennato alla follia di cui sopra, venendo accusati per questo di filo-putinismo. Il fatto che a scriverlo sia una delle migliori penne americane, e per di più sul Nyt, conforta ed evidenzia l’altra follia, quella maccartista scatenata dalla inesorabile propaganda di guerra.

Detto questo val la pena sottolineare quel cenno sui “fattori più che instabili” di questa guerra, dove l’instabilità è data dall’ingaggio sempre più profondo dell’Occidente.

Di ieri, ad esempio, l’annuncio, da fonte ucraina, che era stata colpita un’altra nave da guerra russa. Notizia che arrivava poche ore dopo la rivelazione che gli Stati Uniti avevano “aiutato” gli ucraini ad affondare la Moskva.

L’operazione, seppur nel quadro bellico, ha rischiato di innescare un’escalation, come denotava il silenzio assoluto del Pentagono e dei russi sulla vicenda. L’unica reazione, infatti, è stata quella del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che, interpellato nel merito, ha risposto: “Non sono informato”.

Avrebbe potuto smentire, ma non l’ha fatto. Ha usato una formula vaga quanto non credibile. Il silenzio delle due superpotenze, e l’oblio nel quale oggi è caduta la notizia, nonostante la sua enormità, fa reputare che qualcosa è effettivamente successo, anche se non si hanno dettagli sulla gravità del danno.

Ma soprattutto che ieri tra Mosca e Washington sono intercorse telefonate nervose per mettersi d’accordo sul da farsi, perché se è vero quanto allarmava Luttwak, che cioè con l’affondamento della Moskva si è sfiorata la guerra mondiale, quanto avvenuto ieri – una sfida aperta alla Russia da parte della Nato – ha rinnovato e rilanciato la possibilità.

I russi avevano evitato di rispondere all’affondamento della propria ammiraglia, limitandosi a intensificare i raid sull’Ucraina ed eludendo obiettivi occidentali (ad esempio una nave o un sottomarino Nato). Ma è evidente che la reazione limitata era successiva a un accordo più ampio perché l’incidente non si ripetesse (come sottintendevano le parole di Luttwak)).

Non è solo Zelensky a voler “invischiare” l’America e la Nato in uno scontro diretto contro la Russia, ma anche apparati e politici americani e internazionali, tra cui la bellicosa Gran Bretagna. Tale pressione, e le capacità di manovra dimostrata da tali ambiti, rende il conflitto ad alto rischio e la necessità di giungere a un accordo più stringente.

Il 9 maggio la Russia celebrerà la vittoria sul nazismo. Data a rischio di ulteriori provocazioni, una delle quali è già stata avanzata da Zelensky, che ha invitato Olaf Scholz a visitare il suo Paese proprio quel giorno (Usa Today).

Non che la Germania debba ancora pagare quel debito, ma è evidente l’inopportunità di scegliere quella data per la visita, perché suona come se si volesse rinnovare la sfida del passato.

D’altronde a Mosca non hanno certo dimenticato l’esclamazione di Churchill alla morte di Hitler: “Abbiamo ucciso il maiale sbagliato“. Il riferimento era a Stalin, ma il problema per certi ambiti atlantisti era, e resta, la Russia.

 

(1) È evidente che Mosca non vuole l’ingaggio della Nato nel conflitto, che la sta costringendo a una guerra su scala superiore a quanto immaginava. Ma per poter scrivere liberamente certe cose è necessario fare premesse anti-russe, anche le più illogiche. Tale il tributo da pagare al clima maccartista.

 

 

 

 

 

 

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