5 Agosto 2025

Gaza e il genocidio. La palestinese Niat e la senatrice Segre

di Davide Malacaria
Gaza e il genocidio. La palestinese Niat e la senatrice Segre
Tempo di lettura: 4 minuti

La senatrice Liliana Segre ha risposto all’intervista dello scrittore David Grossman che aveva dichiarato, per la prima volta e con le cautele del caso, che quanto sta avvenendo a Gaza è genocidio.

La Segre ha condannato in maniera irrevocabile “l’abominio” che si sta consumando a Gaza e le dichiarazioni incendiarie di alcuni politici israeliani, come anche le violenze dei coloni (manca, nell’occasione, un’esplicita condanna dei crimini compiuti dai soldati dell’IDF, ma magari l’ha fatto in precedenza). E, però, ha precisato che l’uso della parola genocidio è, in estrema sintesi, manipolativo, vendicativo e cela antisemitismo.

Non siamo affatto d’accordo, ma, sul punto, facciamo parlare chi ha parlato meglio di noi. Si tratta di una lettera scritta da Niat che ha patito la lunga oppressione israeliana insieme al suo popolo. La lettera è stata scritta a marzo, ma è stata rilanciata da alcuni siti in questi giorni, con certa tempestività.

Non sappiamo nulla di Niat, che ha scelto opportunamente il semi-anonimato, né sappiamo se Niat sia uno pseudonimo. Non interessa; interessa, eccome, quel che c’è scritto in quelle righe, che appare inoppugnabile quanto privo dell’odio o dell’antisemitismo che dovrebbe ascriversi a quanti usano la parola genocidio. Non una critica alla Segre, che a nulla serve, ma un grido disperato, un anelito insopprimibile, quanto soppresso, alla vita.

Gentile Signora Liliana Segre,

mi rivolgo a lei con profondo rispetto, consapevole del dolore che ha attraversato nella sua vita e della testimonianza preziosa che rappresenta.

Ho letto le Sue parole con turbamento. Lei si dice ferita dall’uso del termine “genocidio” per descrivere quanto sta accadendo a Gaza, come se questa parola fosse un’eredità sacra, un diritto esclusivo, un simbolo che possa appartenere a uno solo dei dolori del mondo.

Mi permetta, con tutta l’umiltà possibile, di dirle che noi Palestinesi non abbiamo mai voluto rubare quella parola, non l’abbiamo scelta. È stata, piuttosto, incisa sul nostro corpo, sulla nostra carne, sui nostri sogni, da mani che lei, forse, conosce meglio di quanto possa dire.

No, non siamo orgogliosi di quella parola, non è una medaglia, non è un vessillo. È una ferita, è un urlo, è il suono sordo delle bombe che spazzano via case, ospedali, scuole, chiese e moschee. È il pianto dei bambini sotto le macerie, è il silenzio dei corpi smembrati, è la fame che dilania, è l’umiliazione dell’assedio.

È il nome che il mondo, quel mondo che ci guarda e resta in silenzio, ha dato a ciò che accade, mentre noi piangiamo i nostri morti senza nemmeno poterli seppellire.

Se davvero potessimo restituirle quella parola, Signora Segre, gliela riconsegneremmo in cambio di una sola cosa: la vita dei nostri figli.

Ci ridia Hind, 7 anni, rimasta sola in un’auto, circondata dai cadaveri della sua famiglia. Tutto il mondo l’ha sentita piangere, supplicare aiuto, mentre i carri armati israeliani si avvicinavano. Ci ridia Yazan, 6 anni, morto di fame perché gli aiuti sono stati bloccati.

Ci ridia Mohammed, 16 anni, bruciato vivo.

Ci ridia Mustafa, 14 anni, ucciso mentre andava a scuola. Ci ridia Rami, 13 anni, che festeggiava il Ramadan con dei fuochi d’artificio. Ci ridia Ahmed, 8 anni, colpito mentre cercava un sacco di farina.

Ci ridia le membra dei nostri figli, i loro occhi, le loro mani, i loro sogni. Ci ridia la loro innocenza, la loro risata. Ci ridia tutto ciò che la parola “genocidio” ha cercato di raccontare, e che nessuna parola potrà mai davvero contenere.

E allora, Signora Segre, Le promettiamo, non la useremo più.

Non ci sarà più bisogno di quella parola, perché più di ogni altra cosa, noi Palestinesi desideriamo una sola cosa: vivere. Vivere con dignità, con giustizia, con libertà.

Siamo un popolo che ama la vita, e che, nonostante tutto, continua ad amarla.

Con rispetto profondo,

Najat figlia di rifugiati palestinesi, testimone di una ferita aperta.

A margine, pubblichiamo l’appello di 132 ebrei, sopravvissuti o figli di sopravvissuti al genocidio nazista, inviato al Congresso Usa nel lontano 2014, quando Israele aveva avviato contro Gaza l’operazione Margine di protezione (i firmatari sono in calce al documento, cliccare qui).

“Come ebrei sopravvissuti e discendenti dei sopravvissuti al genocidio nazista, condanniamo inequivocabilmente il massacro dei palestinesi a Gaza e l’occupazione e la colonizzazione in corso della Palestina storica. Condanniamo inoltre gli Stati Uniti per aver fornito a Israele i finanziamenti per compiere l’attacco, e più in generale gli Stati occidentali per aver usato la loro forza diplomatica per proteggere Israele dalla condanna”.

“Il genocidio inizia con il silenzio del mondo. Siamo allarmati dall’estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto il culmine. In Israele, politici ed esperti del Times of Israel e del Jerusalem Post hanno apertamente invocato il genocidio dei palestinesi e gli israeliani di destra stanno adottando simbologie neonaziste”.

Nella missiva, la condanna delle manipolazioni allora usate “per giustificare l’ingiustificabile: l’impegno massiccio di Israele per distruggere Gaza e l’assassinio di quasi 2.000 palestinesi, tra cui centinaia di bambini. Nulla può giustificare il bombardamento di rifugi, case, ospedali e università delle Nazioni Unite. Nulla può giustificare la privazione di elettricità e acqua”.

“Dobbiamo alzare le nostre voci collettive e usare il nostro potere collettivo per porre fine a ogni forma di razzismo, compreso il genocidio in corso del popolo palestinese. Chiediamo la fine immediata dell’assedio e del blocco di Gaza. Chiediamo il boicottaggio economico, culturale e accademico di Israele. ‘Mai più’ deve significare MAI PIÙ PER NESSUNO!”

Benché datato, l’appello appare di certa attualità. Certo, non c’era stato il 7 ottobre e le 1200 vittime israeliane, ma anche le vittime palestinesi allora erano minori, 2mila e non oltre 60mila, né la devastazione di Gaza e delle sue infrastrutture minimamente paragonabile all’attuale.

 

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