La tregua a Gaza e l'attentato a Manchester

Trump ha annunciato l’accordo tra Hamas e Israele. La macchina assassina israeliana è stata costretta a fermarsi, anche se l’IDF, come ha sempre fatto nelle guerre di Gaza pregresse e prima delle tregue che hanno avuto luogo nell’attuale, ha continuato a bombardare fino all’ultimo minuto prima dell’entrata in vigore ufficiale del cessate il fuoco. Una coazione a ripetere difficile da spiegare, se non con un termine psichiatrico: sadismo.
L’accordo prevede una prima fase in cui, cessate ostilità, sarà effettuato uno scambio di prigionieri, gli ostaggi vivi e i corpi dei defunti in cambio di 250 palestinesi che stanno scontando l’ergastolo nelle carceri israeliane e 1.700 detenuti a Gaza dal 7 ottobre. Nelle more dello scambio l’IDF effettuerà un ritiro parziale.
Come accenna Axios, le problematiche più “spinose, come il processo di disarmo di Hamas e la futura struttura di governo di Gaza, devono ancora essere negoziate”. Saranno trattate successivamente, mentre resta da vedere quando l’IDF completerà il ritiro dalla Striscia e se conserverà il controllo di una fascia di sicurezza più o meno ampia, come da pretese di Tel Aviv.
Netanyahu, almeno al momento, ha dovuto accettare un’interruzione della sua guerra infinita, ma non per questo ha perso, dal momento che sembra destinato a conservare il potere. Hamas ha dovuto accettare una tregua/pace ingiusta per porre fine allo sterminio in corso.
L’unico che può vantare una vittoria netta, che tale resterà anche se la guerra riprendesse, è Trump, osannato dagli ebrei di Israele e del mondo perché ha liberato gli ostaggi che Tel Aviv destinava alla morte (tale la reiterata accusa dei familiari degli ostaggi). E gratitudine gli accorda anche parte del mondo arabo per aver fermato il genocidio. Così che oggi straparla di pace imperitura per il Medio oriente e oltre andando, come al solito, fuori registro.
Resta che tante sono le voci critiche del suo cosiddetto piano di pace, che in realtà impone una resa ad Hamas – limitandosi la trattativa a stabilire se sarà condizionata o incondizionata – e aggioga i palestinesi a una tutela coloniale della peggior specie. Mentre di fatto nega, accennandone appena come punto terminale tanto lontano quanto aleatorio, la nascita di uno Stato palestinese.
Ma, al momento, non c’erano alternative, se non la prosecuzione del genocidio. Uno sviluppo, quest’ultimo, che non è scongiurato dall’intesa, come sa chiunque abbia seguito gli orrori di questi due anni. Sul punto, Hamas e i palestinesi tutti sono costretti ad accontentarsi delle promesse di Stati Uniti e Qatar, che si sono fatti garanti della tenuta della tregua.
Per questo, mentre Israele festeggia, dal momento che l’unico esito sicuro dell’accordo è la liberazione degli ostaggi, per i palestinesi il giubilo si intreccia con le sofferenze del momento presente e i timori sull’incerto futuro.
Timori che non si limitano solo alla possibilità, più o meno alta, che la macchina omicida riprenda a macinare vite o sul destino personale di ognuno di essi, i cui corpi sono stati segnati indelebilmente da questi mesi di bombe, fame e altre disumane restrizioni, ma anche sul futuro collettivo, che ad oggi li destina, se tutto va bene, a servi dei padroni coloniali, aggiogati a un’autorità che tutelerà gli interessi altrui più che le loro vite.
L’unica cosa sulla quale possono contare è la solidarietà internazionale suscitata dagli orrori che li hanno flagellati, che non sembra destinata a spegnersi facilmente.
Se si apriranno le porte di Gaza, sbarrate da ben 30 anni, tanti, non solo i flottilleros, gli ultimi dei quali sono stati sequestrati due giorni fa (al solito, in acque internazionali), cercheranno di portare conforto agli stremati gazawi.
Inoltre, la Palestina, benché annichilita dalle bombe e dal cosiddetto piano di pace made in Usa-Israele, resterà viva nella coscienza collettiva internazionale. Non è tanto, ma neanche poco. Comunque, nonostante le tante criticità e le incertezze del momento, oggi resta un giorno di sollievo.
Una nota a margine merita l’attentato alla sinagoga di Manchester, costato la vita a due ebrei, uno dei quali ucciso per errore dalla polizia. Una tragedia che ha rilanciato alto e forte l’allarme antisemitismo, riecheggiato da Israele all’intera leadership occidentale, parte della quale si è lanciata nel facile accostamento tra questo e le espressioni di solidarietà verso la Palestina.
Si è scoperto, però, che l’attentatore era affiliato all’Isis, il movimento terrorista che ha aperto la strada alla nuova Siria del post Assad, del quale l’attuale presidente, al Jolani, è stato a lungo un esponente di rilievo, essendo il braccio destro dell’autoproclamato Califfo al Baghdadi.
Non per nulla l’attentatore proveniva dalla Siria, come i tanti che hanno insanguinato l’Europa negli anni ruggenti di al Qaeda – la cui sezione siriana era gestita da al Jolani, fuoriuscito dal Califfato – e dell’Isis.
Oltre che allarmare sull’antisemitismo, Israele e l’Occidente dovrebbero prestare un po’ più di attenzione ai loro protetti, usati a mani basse per realizzare i regime-change nei Paesi arabi. E forse esaltare un po’ meno al Jolani, davanti al quale invece si stendono tappeti rossi.
Così l’accoglienza del nuovo presidente siriano negli Stati Uniti, ricevuto con tutti gli onori dal Segretario di Stato Marco Rubio e dall’ex capo della Cia David Petraus (che lo conosce dai tempi in cui lui e al Baghadi erano detenuti a Camp Bucca, dal quale furono entrambi liberati in tempi brevi). Così l’incredibile incontro, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, tra al Jolani e il presidente del Congresso ebraico mondiale Ronald S. Lauder. Incontri ravvicinati che, anche alla luce di quanto avvenuto a Manchester, suscitano certa perplessità.
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