Gaza: meglio una pace difettosa che la prosecuzione del genocidio
Tempo di lettura: 5 minutiE così accade quanto sembrava impensabile: Hamas accetta il cosiddetto piano di pace di Trump e, a sua volta, il presidente americano accoglie con favore il consenso della milizia islamica e chiede a Israele di cessare “immediatamente” le azioni offensive.
La reazione di Trump, come rivelato da Barak David a Channel 12, ha “sorpreso” Netanyahu, una sorpresa che si spiega col fatto che, accogliendo subito e senza consultarlo la risposta di Hamas, gli ha tolto margini di manovra per mandare all’aria l’ennesimo negoziato.
Gli ostaggi saranno rilasciati tutti e in una sola tornata insieme ai cadaveri dei poveretti defunti, almeno così prevede il piano di pace, ma ovviamente Hamas ha chiesto che si creino le condizioni perché avvenga, cioè che Israele allenti la presa e cessi le azioni militari, richiesta che Tel Aviv ha accolto passando in modalità difensiva e sospendendo la conquista dell’ultimo lembo di Gaza City.
Ma perché tutto sia predisposto per l’occorrenza, perché cioè il rilascio deli ostaggi proceda in sicurezza, serve un accordo dettagliato, da cui una nuova tornata di negoziati. In questa fase non sembra che possano essere inserite varibili tali da vanificare quanto avvenuto, ma la cautela è d’obbligo.
Per i palestinesi è un momento di sollievo dalle bombe – anche se denunciano ancora attacchi dell’IDF – in attesa che si spalanchino le porte agli aiuti umanitari che nei mesi precedenti sono stati ridotti al lumicino.
Anche stavolta sembrava doversi ripetere il copione delle trattative precedenti quando Hamas, pervenutagli la proposta di pace del caso, l’accoglieva chiedendo alcune modifiche significative, risposta che dava occasione a Netanyahu per sabotare il tutto. Proprio i precedenti devono aver convinto Hamas e i Paesi arabo-musulmani che stanno cercando di porre fine al genocidio di Gaza ad accogliere il piano di Trump senza eccessivi cambiamenti, nonostante le evidenti lacune.
Della partita erano anche Russia e Cina, che hanno certa influenza nel Golfo e rapporti consolidati con i palestinesi, con Mosca e Pechino che hanno subito appoggiato la proposta americana.
Una proposta modificata all’ultimo minuto da Netanyahu, che ha fatto irritare non poco i Paesi arabi e musulmani con i quali era stata concordata, il quale vi ha inserito clausole tali da renderla inaccettabile ad Hamas, ma anche questo tentativo è andato a vuoto.
Si doveva dar seguito a quel piano, per quanto vacuo e nebuloso fosse, per uscire dall’impasse e così è stato. La lacuna più evidente del piano sta nel fatto che non offre alcuna garanzia reale su una pace duratura, né sul destino dello Stato palestinese.
Ma resta, anche, quanto rileva Meron Rapaport su +972 Magazine: “Sebbene sia per molti versi problematico, il piano in 20 punti di Trump per porre fine alla guerra di Gaza sembra segnare la fine delle fantasie di espulsione [dei palestinesi] da parte del governo israeliano”.
“Se questo accordo verrà attuato alla lettera – scrive Rapaport – il genocidio finirà, la distruzione di Gaza cesserà, gli aiuti umanitari affluiranno per impedire un ulteriore avanzamento della carestia, tutti gli ostaggi israeliani rimasti saranno rilasciati insieme a migliaia di palestinesi detenuti con e senza accusa nelle prigioni israeliane e i soldati israeliani non saranno più uccisi al servizio di una guerra insensata e criminale”.
Nonostante le tante contraddizioni, aggiunge il cronista, i punti fondamentali del piano “sono pressoché gli stessi di tutti i negoziati per il cessate il fuoco che hanno avuto inizio nell’ottobre 2023: il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della fine della guerra e del rilascio dei prigionieri palestinesi, un ritiro israeliano graduale da Gaza, la cessione del potere da parte di Hamas e l’ingresso di una forza di sicurezza multinazionale con il coinvolgimento di diversi Stati arabi”.
“Dopo circa 100.000 morti palestinesi e la distruzione della maggior parte delle città di Gaza, qualsiasi annuncio di ‘vittoria’ da parte di Hamas sarebbe palesemente assurdo. Ma questa proposta non rappresenta una vittoria nemmeno per Israele e certamente non per Netanyahu e i suoi alleati di governo le cui ambizioni di ripulire Gaza dalla sua popolazione palestinese sono chiare da tempo”.
Il riferimento puntuale dell’ultimo cenno è al piano ufficiale reso pubblico dal governo israeliano poco dopo il 7 ottobre, che “prevedeva ‘l’evacuazione’ dei 2,3 milioni di palestinesi residenti di Gaza. Poco dopo, l’esercito iniziava a distruggere interi quartieri per impedire il ritorno degli sfollati e questa divenne la sua principale modalità operativa a partire dal cosiddetto ‘Piano dei generali” attuato dalla fine del 2024″.
Sull’espulsione, il piano di Trump, secondo Rapaport, è chiaro: non ci sarà. Convincente, sul punto, quanto spiega: “La vertiginosa inversione di tendenza dei portavoce di Netanyahu […] – dall’euforia per l’imminente espulsione al fervente sostegno all’accordo anti-trasferimento di Trump – non deriva solo dal desiderio di glorificare il primo ministro in vista di elezioni anticipate che molti prevedono che si terranno l’anno prossimo; potrebbe anche derivare dal tardivo riconoscimento che la deportazione di massa semplicemente non è fattibile”.
“[…] Il ‘tempo dei miracoli’ [secondo le fantasie malate di Tel Aviv ndr.], l’occasione unica nel secolo per eliminare definitivamente i palestinesi da Gaza, è finito. Malconci e feriti, i gazawi restano“.
Tante le incognite sul futuro, tra cui la possibilità che il conflitto riprenda, ma questo è, appunto, il futuro. A ogni giorno basta la sua pena, recita il vangelo, e oggi va bene così. Il genocidio dei palestinesi oggi sembra potersi arrestare. Trump parla di una possibilità di pace “duratura”, ma appare un termine azzardato. Sarebbe già tanto se si arrivasse a una pace provvisoriamente definitiva, ma per ora, dopo tanti orrori, va bene anche una pace definitivamente provvisoria.
Da ultimo, si spera che lo stop alle operazioni di Gaza non serva a Usa e Israele per concentrarsi su una nuova guerra a più ampia scala contro l’Iran (vedi Piccolenote).





