27 Ottobre 2017

L'America di Bannon

L'America di Bannon
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Steve Bannon, lo stratega di Donald Trump, non è affatto fuori dai giochi, come invece hanno spiegato i media all’indomani delle sue dimissioni dalla Casa Bianca. È tornato a dirigere la sua creatura mediatica, la piattaforma Breitbart, e da lì continua la sua battaglia per cambiare l’America, in stretto contatto con il presidente, con il quale ha ancora contatti.

Da Breitbart ha iniziato una battaglia contro gli avversari del presidente, anzitutto del partito repubblicano. La sua idea è quella di arrivare a presentare alle elezioni di midterm candidati meno ostili a Trump.

Due senatori repubblicani hanno già annunciato che non si ricandideranno a seguito di tale campagna. Il suo attivismo e la sua vicinanza al presidente degli Stati Uniti rende quindi rilevanti le sue posizioni, che ha espresso in un convegno al quale ha partecipato Paolo Mastrolilli, che pubblica il relativo report sulla Stampa del 27 ottobre.

In questa sede Bannon ha fustigato i neoconservatori, che hanno gestito il precedente quindicennio di guerre : «I geni dell’élite ci hanno lasciato l’equivalente della Baia dei Porci in Venezuela, la crisi dei missili cubani in Corea del Nord e il Vietnam in Afghanistan, senza dimenticare l’ascesa della Cina, che vuole diventare potenza egemone, l’espansionismo persiano favorito dall’ossessione di Obama per l’accordo nucleare».

Interessante analisi, che indica la sconfitta del tentativo di rovesciare il governo venezuelano, come fu appunto per la Baia dei porci con Cuba, e la preoccupazione per la crescita cinese.

«Nessuno in America vuole combattere per generazioni», ha spiegato Bannon, che poi è l’esatto contrario dell’ideologia delle guerre neocon, che iniziarono con la cosiddetta “guerra infinita” proclamata sotto l’amministrazione di George W. Bush.

L’Iran, al solito, è messo nella casella dei cattivi, con i suoi alleati regionali, mentre l’Arabia Saudita, l’Egitto e i «paesi responsabili del Golfo», sono i buoni. Interessante la citazione del Qatar, a sorpresa inserito nella casella dei cattivi insieme ai Fratelli musulmani, movimento islamico egemone nell’emirato e in Turchia.

Di assoluto rilievo l’accenno in cui Bannon spiega che «quanto avviane in Qatar è più importante della Corea del Nord». È quello che abbiamo accennato in maniera implicita in altra nota, che spiegava il riposizionamento di Doha (che si è in parte distaccata dall’Occidente per compere passi verso Mosca, come d’altronde l’alleata Turchia).

Ed è interessante anche il tacito risvolto: la crisi coreana non interessa più di tanto Trump, al di là dei proclami altisonanti. Aiuta a sperare in una soluzione diplomatica.

Altrettanto interessante l’accenno ai cattivi, ovvero all’Iran. Bannon spiega che quando Trump è andato a Ryad si era proposto vari obiettivi, il più importante dei quali appare quello di «costituire un’alleanza militare per bloccare l’espansione persiana».

Frase che va modulata con un’altra dichiarazìone: «Basta con il nation building, abbiamo una nazione da ricostruire qui in America. Ad alleati come l’ Arabia o l’Egitto abbiamo detto che la riforma dell’islam, la sfida contro l’estremismo, è una lotta loro, non nostra. Noi ci siamo e li aiutiamo, ma devono condurla loro affinché possa avere successo».

Tali accenni potrebbero indicare che gli Stati Uniti lasceranno ai loro alleati locali anche la gestione del conflitto di fondo tra sauditi e iraniani (e rispettivi alleati).
Tale conflittualità potrebbe quindi proseguire in altro modo, ovvero con l’America che aiuta i primi contro i secondi.

Ma appare difficile immaginare che i sauditi possano davvero sostenere un guerra all’Iran senza un apporto massiccio degli Stati Uniti, non solo di armamenti. Ryad ne uscirebbe incenerita.

La nuova posizione degli Stati Uniti, se la visione di Bannon prenderà forma, potrebbe invece suggerire l’idea della creazione di due blocchi mediorientali, quello sunnita e quello sciita, abitati da una tensione permanente ma controllata, tipo quella conseguente a Yalta per l’Europa.

«Non c’ è nulla di isolazionista in Trump», spiega Bannon. Trump resta «connesso» con il mondo, ma «la pax Americana non si realizzerà imponendo i nostri valori agli altri. Bisogna costruire una società solida che li offra come modello». Fine quindi dell’altro pilastro fondante delle guerre pregresse, narrate come una lotta per esportare la democrazia.

Bannon dunque indica una rotta diversa da quella dei neocon (unica concessione a tale ambito è appunto l’avversione all’Iran; che può modularsi in vari modi, anche nefasti).

Ma l’idea di un parziale ritiro dell’America dai conflitti mediorientali (e afghano), come anche l’avversità alle guerre per esportare la democrazia e all’idea di una destabilizzazione permanente (sottesa all’ideologia della “guerra infinita”), possono immettere variabili nuove e forse meno conflittuali nella geopolitica globale.

A dispetto dei toni e delle posizioni “ultras” del proponente e del suo presidente di riferimento.