I negoziati di Istanbul, l'attacco alla Russia e il genocidio di Gaza

Al solito, proprio quando si stringe sul negoziato, l’Ucraina e i circoli internazionali consegnati alla guerra globale hanno tentato di far saltare tutto (proprio tutto). Così è stato anche stavolta, con l’attacco massivo e potenzialmente devastante contro le basi che ospitano i bombardieri strategici russi e due ponti destinati al traffico ferroviario, su uno dei quali era in transito un treno passeggeri (7 i morti, oltre 100 i feriti). Attacchi più che sofisticati, organizzati da oltre un anno, e che hanno interessato tutto il territorio russo fino alla Siberia.
La Pearl Harbor di Putin…
L’attacco mirava a far saltare l’incontro di Istanbul previsto per il 2 giugno e a innescare una durissima reazione russa, infatti, come titola l’Adnkronos, aveva tutte le potenzialità di una “Pearl Harbor di Putin“, quando tutto sarebbe precipitato (anche se è vero che, al di là dei proclami ucraini, si è trattato di una mera “vittoria psicologica“, come titola il Washington Post, cioè limitata).
Nonostante la rabbia, Mosca ha conservato un’estrema lucidità, benché abbia sentito i morsi dell’attacco. E, pur avvertendo che risponderà in maniera adeguata, ha ugualmente inviato il team negoziale a Istanbul.
Nonostante tutto, a Istanbul si è raggiunto un nuovo accordo su uno scambio di prigionieri e un potenziale cessate il fuoco di due o tre giorni limitato ad alcune zone del fronte e, soprattutto, è avvenuto uno scambio di memorandum nel quale i contendenti hanno delineato le condizioni per porre fine alla guerra.
Inutile in questa sede dar conto delle richieste reciproche, ovviamente molto divergenti, quel che serve rilevare è che Mosca ha attutito le sue condizioni, venendo incontro alla richiesta di Kiev per un cessate il fuoco di 30 giorni.
Come rileva Strana, se in precedenza aveva risposto che avrebbe accolto la richiesta solo se l’esercito di Kiev si fosse ritirato dalle quattro regioni del Donbass conteso, ora accetta che tale ridispiegamento sia rimandato a una fase successiva al congelamento del fronte per completarsi nei 30 giorni successivi. Non è una questione di lana caprina: la prima opzione era quasi inaccettabile per Kiev, la seconda ha il crisma della fattibilità.
Non è poca cosa: se si riuscisse ad arrivare a una tregua di 30 giorni a condizioni che la Russia ritenga accettabili, cioè prive delle usuali ambiguità proprie del partito della guerra – che vuole usare del cessate il fuoco per riorganizzare le fila e riprendere le ostilità et similia – si potrebbero aprire le porte a un negoziato reale sulla fine del conflitto.
Per tornare all’attacco su larga scala di domenica contro la Russia, va accennato che se Mosca ha continuato a perseguire la via del negoziato è perché ha avuto rassicurazioni dall’amministrazione Trump, che sono arrivate tramite una telefonata tra il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il Segretario di Stato Usa Marco Rubio.
Mosca sa perfettamente chi c’è dietro gli attacchi ai suoi bombardieri strategici, cioè i soliti circoli neocon-liberal Usa e l’ostinata leadership britannica che, nonostante si sia chiamata fuori dalla Ue, sta guidando il Vecchio continente in questo tunnel degli orrori.
Il filo che lega l’Ucraina a Gaza e Iran
Va notato che in parallelo all’escalation ucraina si registra il rilancio del “genocidio” di Gaza (parola usato anche in un appello pubblico da oltre 380 scrittori israeliani). La proposta israelo-americana avanzata venerdì era fatta per non essere accolta, com’è avvenuto, con ovvia controproposta di Hamas che, in attesa degli eventi, ha dato modo a Israele di riprendere a pieno ritmo il mattatoio dei palestinesi: 51 i morti solo nelle ultime 24 ore, molti dei quali uccisi mentre tentavano di accedere agli aiuti (sul punto rimandiamo al New York Times).
Tutto ciò perché il genocidio di Gaza corre in parallelo con la spinta a proseguire la guerra ucraina e a quella ancor più nefasta di farne una guerra mondiale, analogamente alle pulsioni per innescare una grande guerra mediorientale, anch’essa di prospettiva globale, attaccando l’Iran.
Cartina di tornasole per comprendere tale nesso, l’attivismo del senatore repubblicano neocon Lindsey Graham, che venerdì era a Kiev insieme al suo collega democratico (e liberal) Richard Blumenthal. Un summit nel quale i due hanno trasmesso a Zelensky la luce verde dei loro circoli per gli attacchi alla Russia (ovviamente non c’è niente di pubblico, ma la tempistica non lascia spazio ad altre interpretazioni).
Oltre a sostenere Kiev in tale modalità fuori registro, Graham sostiene attivamente il genocidio palestinese, anche per i vincoli di sangue (altrui) che legano Netanyahu ai neocon Usa, oltre che essere fautore di un attacco alzo zero contro l’Iran.
Infatti, e solo per fare due esempi tra i tanti, ha dichiarato che gli Stati Uniti non dovevano porre a Israele “nessun limite” per quanto riguarda le vittime civili prodotte dal suo attacco a Gaza e, a inizi maggio, ha dichiarato che da tempo gli Usa avrebbero dovuto “colpire duramente” Teheran (una grande guerra globale darebbe agio a Israele, e non al solo Netanyahu, di far dimenticare al mondo il genocidio attuale…).
Ovviamente Graham è solo un pedina, uno dei tanti portavoce dei circoli neocon e liberal che hanno dominato l’Impero e gran parte del mondo dal settembre 2001 ad oggi. Per Trump, che a tali circoli ha dichiarato guerra, sarebbe facile eliminare dal gioco politico Graham, ma non è lui il problema, ma quelli che ne tirano le fila. E depotenziarne l’influenza nell’Impero e nel mondo è arduo, forse troppo per lui.
Piccolo cenno di questa guerra silenziosa che si sta consumando nel cuore dell’Impero (sulla quale rimandiamo anche a una nota di The Cradle), il licenziamento di 100 membri del Consiglio di sicurezza nazionale, centro di potere chiave della politica estera Usa.
Sempre The Cradle, in una nota successiva, faceva notare che, nell’ambito di tale scontro, Trump ha defenestrato Morgan Ortagus, inviata Usa per il Libano, Merav Ceren (ex soldato dell’IDF) che supervisionava la politica americana verso l’Iran, ed Eric Trager, coordinatore delle politiche per l’Africa e il Medio oriente, tutte figure appiattite sui desiderata di Tel Aviv.
Lo scontro è in divenire e l’esito è incerto. Nel frattempo Trump dovrebbe evitare che scoppi la terza guerra mondiale. La Russia sta aiutando con la sua pazienza strategica, ma sta all’imperatore e ai suoi alleati fare passi più significativi per allontanare dalle stanze dei bottoni imperiali gli incendiari globali e impegnarsi con più efficacia e meno vuoti proclami nella distensione internazionale, dal Medio oriente all’Ucraina (basterebbe chiudere il flusso continuo di armi verso i due teatri di guerra). Il mondo non può fare affidamento solo sulla pazienza strategica di Mosca, perché anch’essa ha un limite.
Di oggi, infatti, la notizia di un nuovo attacco ucraino allo strategico ponte di Kerch, che unisce la Russia alla Crimea… altra trovata per innescare l’escalation.
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