L'attrito Trump-Netanyahu e l'assassinio di Charlie Kirk

Il Wall Street Journal, rivelando come il presidente americano abbia chiamato Netanayhu per protestare contro l’attacco israeliano a Doha, conferma che questo non era coordinato con Donald Trump. Altra cosa è se ha goduto dell’appoggio americano, che certamente c’è stato dal momento che la base dell’U.S. Army in Qatar e l’intelligence Usa, al di là se Israele abbia avvertito troppo tardi o meno, ne aveva certo contezza nell’immediato.
Contraddizione solo apparente. È usuale che al presidente Usa si ascriva un potere che non ha. L’imperatore, in realtà, ha margini di manovra ridotti e Trump più di altri, dal momento che ha ereditato un esercito e un apparato di intelligence non suo, consegnato cioè alle guerre infinite e devoto al potere politico – finanziario che dopo l’11 settembre ha conquistato la stanza dei bottoni usando gli attentati (Torri gemelle, Pentagono, aereo civile United 93 e altri meno noti) per promuovere un’agenda aggressiva di politica estera.
L’imperatore, dunque, ha provato a protestare per l’ennesimo strappo di Netanyahu, che ha con il potere di cui sopra un legame di sangue, ma ha subito compreso che non poteva farlo. Così, dopo poco, ha alzato nuovamente la cornetta del telefono e, cosa davvero inusuale, richiamato il premier israeliano per chiedergli se l’attacco avesse avuto successo…
Domanda che palesa la totale confusione e prostrazione di Trump, che, peraltro, avrebbe potuto più agevolmente contattare i suoi in Qatar. Di fatto, un’excusatio non petita per aver osato mettere in discussione l’operato del dominus.
Non solo, dopo aver rassicurato il Qatar che quanto avvenuto non si sarebbe ripetuto, ha dovuto incassare le smentite indirette della leadership israeliana, con il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir che dichiarava che avrebbero colpito Hamas “ovunque” e con Netanyahu che ha intimato al Qatar di espellere o consegnare alla giustizia Hamas, oppure, ha minacciato, “lo faremo noi”. Insomma, le rassicurazioni di Trump non sono state nemmero prese in considerazione. Se Israele può fare tutto ciò, in contrasto pubblico con l’imperatore, è perché può contare su un potere americano più forte di questi.
Ma ieri non è stata solo la giornata delle due, anomale, telefonate a Netanyahu. È stato anche il giorno dell’assassinio di Charlie Kirk, il più popolare attivista Maga e molto legato a Trump, ucciso da un cecchino che, mentre scriviamo, non è stato ancora scovato. Tanti i cecchini in attività negli States negli ultimi tempi, due dei quali hanno provato a far fuori Trump durante la campagna elettorale.
Le posizioni di Kirk erano una sorta di copia incolla di quelle del presidente, che criticava pubblicamente solo sulla secretazione dei file Epstein. Infatti, Kirk era uno strenuo sostenitore di Israele e, in parallelo, sosteneva la necessità di chiudere la guerra ucraina e ricostruire i rapporti con la Russia.
Sul punto, riportiamo una sua riflessione rilanciata da Strana: “Dovremmo riaprire i canali diplomatici con la Federazione Russa. È allettante dire semplicemente che la Russia è il grande nemico degli Stati Uniti. Siamo stati noi a renderli nemici […]. C’era un accordo di pace sul tavolo. La Russia è diventata nostra nemica perché era un nemico ideologico. Quel regime è caduto e non c’è motivo di pensare che sia ancora un nostro nemico. Quando è crollata l’Unione Sovietica, sono state fabbricate molte false argomentazioni per far sì che la Russia restasse un nemico degli Stati Uniti”.
Ma sulla figura di Kirk appare interessante, perché del tutto imprevisto-controcorrente, quanto ha scritto Alexander Dugin, il cosiddetto ideologo di Putin – in realtà un intellettuale russo – non tanto sulle posizioni di Kirk riguardo i costumi e la moralità, quanto quelle sulla politica estera: “Si è sempre espresso con forza contro il regime di Kiev e a favore del riavvicinamento con la Russia, ha criticato la politica aggressiva di Netanyahu e il suo sostegno da parte degli Stati Uniti, ha sostenuto la pubblicazione delle liste di Epstein, anche quando Trump ha fatto marcia indietro. Tuttavia, non aveva fretta di rompere i legami con Trump, cercando di portare a termine il suo compito: portare gli Stati Uniti a una svolta”. Un identikit discorde da altri.
E ieri è stata anche la giornata della Polonia, che sembra voler ripetere i fasti della Seconda guerra mondiale, iniziata proprio sul suo territorio. La boutade dei droni russi che avrebbero attaccato la Polonia continua ad alimentare sogni da guerra totale alla Russia, tanto che oggi sul Washington Post campeggia un articolo del corifeo neocon Max Boot dal titolo: “L’incursione dei droni russi in Polonia richiede una risposta degli Stati Uniti”. Sottotitolo: “Se il presidente Donald Trump non punirà l’ultima provocazione della Russia, dovrà farlo il Congresso”.
Preoccupante, soprattutto il sottotitolo. Per quanto riguarda il titolo, va registrato che ieri Trump ha chiamato il presidente polacco Karol Nawrocki, che finora è stato meno guerrafondaio del premier Donald Tusk, il quale ha subito alzato i toni contro Mosca affermando, come sintetizza The Indipendent, “che la Polonia è più vicina al conflitto di quanto non lo sia mai stata dalla Seconda guerra mondiale”.
Di interesse, e in linea con la scelta telefonica di Trump, il fatto che ieri una delegazione Usa guidata dall’inviato del presidente John Cole fosse a Minsk per incontrare il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. A Cole Lukashenko ha ribadito l’urgenza di porre fine alla guerra ucraina e di riallacciare i rapporti con Mosca, oltre che con il suo Paese, nel quale dovrebbe riaprire l’ambasciata Usa chiusa all’inizio del conflitto ucraino (lo ha annunciato Lukashenko al termine dell’incontro).
Visita ancora più interessante se si tiene presente che la Bilorussia ha fornito una spiegazione plausibile all’incidente: i droni russi sarebbero stati disturbati elettronicamente, da cui il dirottamento in territorio belorusso e polacco. Nessun attacco, ché la Russia non ha nessun motivo per attaccare Varsavia.
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