18 Marzo 2016

Libia: la frenata dei generali e di Obama

Libia: la frenata dei generali e di Obama
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Sull’ipotesi di un intervento militare in Libia si assiste a un ribaltamento dei ruoli: mentre i politici «spingono per un intervento militare», i generali «frenano». È quanto scrive sulla Repubblica del 18 marzo Gianluca Di Feo.

«Tre giorni fa – spiega infatti il cronista – una teleconferenza tra i ministri della Difesa delle potenze europee ha preso atto del caos della situazione, troppo confusa per potere impostare un piano efficace di azione. Sì, una volta autorizzate da un governo libico riconosciuto, le truppe occidentali potrebbero tentare una spedizione. Prendere il controllo di alcune basi, coordinando con le milizie più affidabili attacchi contro il Califfato. E poi? Come si fa a garantire la sicurezza di un paese sterminato dove ogni tribù, partito, brigata da due anni pensa solo a farsi la guerra? Sarebbero necessari migliaia di soldati, con un costo umano ed economico enorme».

Nota a margine. Singolare questo ribaltamento dei ruoli tra politici e uomini d’armi, che la dice lunga sulla lungimiranza, al di là di qualche eccezione che conferma le regola, del ceto politico che governa l’Europa.

Val la pena, però, soffermarsi anche sulle dichiarazioni rilasciate ieri dal Capo del Dipartimento di Stato Usa John Kerry, che ha denunciato il genocidio dell’Isis nei confronti delle minoranze non organiche alla sua perversa visione ideologica. Cose note, ma mai esplicitate in modo così drammatico dall’amministrazione Usa (se ne accorgono adesso?).

Da qui la convinzione di molti analisti che Washington voglia accelerare l’intervento in Libia in funzione anti-Isis. 

E però va ricordato che il presidente Barack Obama, in una recente intervista, ha duramente criticato il precedente intervento in Libia perché, ha spiegato, attuato senza un minimo di pianificazione per la stabilizzazione futura del Paese. Da qui il caos attuale.

Non solo: ha anche fatto nomi e cognomi dei responsabili di quel disastro: il presidente francese Nicolas Sarkozy, il premier britannico David Cameron e l’allora Capo del Dipartimento di Stato Usa Hillary Clinton. Quest’ultima, ha spiegato Obama, lo ha convinto a intervenire nonostante i suoi dubbi.

L’intervista del presidente Usa avrà di certo irritato tanti: non solo i leader politici chiamati in causa in maniera così irrituale, ma anche quegli ambiti, americani e non, che spingono per un nuovo intervento militare a Tripoli, sul quale il presidente degli Stati Uniti, oggi come allora, appare poco convinto.

Così la drammatizzazione di Kerry appare più una correzione di tiro “verbale” da parte di Washington. Un modo per calmare gli animi inquieti dei costruttori di guerra. E, insieme, un modo per prendere tempo nella speranza di trovare il bandolo della matassa dell’intricata, quanto rischiosa, crisi libica.

Trovare un modo di contrastare l’espansione dell’Isis in Libia e d’attorno senza ripiombare in una nuova guerra destabilizzatrice non sarà facile. Ma l’alternativa è tragica. Non solo per la Libia e l’Africa, ma anche per l’Europa. Che in caso di un intervento insensato sarebbe travolta da una nuova ondata di migranti e di terrore made in Isis.