6 Marzo 2021

Medio Oriente: disastro ambientale con giallo

Medio Oriente: disastro ambientale con giallo
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L’inquinamento di un tratto di mare mediorientale ha innescato una ridda di polemiche che merita certa attenzione, perché istruttivo di come un tema come la protezione ambientale, che dovrebbe unire, possa diventare motivo di divisione quando si associa ad accese controversie politiche.

Il casus belli è stato innescato da una marea nera che ha invaso le spiagge israeliane e libanesi, dovuto alla perdita di petrolio da parte una nave cisterna forse identificata o forse no.

L’enorme disastro ambientale ha innescato polemiche in Israele, che vive l’ennesimo periodo pre-elettorale: la quarta elezione consecutiva in due anni, che Netanyahu, che l’ha fortemente voluta, pensava di avere già in tasca (grazie alla sua positiva gestione della pandemia e all’accordo con i Paesi arabo-sunniti), con convinzione sempre meno granitica.

Il disastro ambientale

L’inquinamento massivo delle spiagge israeliane è arrivato come un fulmine a ciel sereno, un disastro che Netanyahu ha temuto potesse essere usato dai suoi nemici: si sa bene che la formula “piove, governo ladro” vale anche in Israele.

Pericolo che ha prevenuto, usandolo a sua volta per assecondare i suoi obiettivi politici, almeno questa è la convinzione della sezione israeliana di Greenpeace (Haaretz).

Questa, almeno a stare ai suoi oppositori, la motivazione alla base delle dichiarazioni del Ministro della Protezione ambientale Gila Gamliel, secondo la quale il petrolio sarebbe fuoriuscito da una nave cisterna iraniana, e non casualmente, configurandosi come un atto di “terrorismo ambientale” da parte di Teheran.

In tal modo, Tel Aviv rilanciava la pressione contro la rivale mediorientale, accusata nei giorni precedenti di aver piazzato delle bombe su una petroliera israeliana, fatto denunciato dallo stesso Netanyahu, e che fortunatamente non ha causato vittime.

Un uno-due contro Teheran necessario anche a porre criticità al già faticoso dialogo sul nucleare iraniano, che Biden sta tentando di rilanciare dopo il ritiro dal Trattato ad opera di Trump (il 4 marzo le rivelazioni dell’ex Capo del Mossad, nome in codice Alef, al Times of israel: “C’era un programma pubblico e uno segreto per far pressione sull’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump affinché si ritirasse dall’accordo nucleare, il Mossad ha intrapreso una serie di azioni per arrivare a questo, mentre ‘implementava la spinta a livello politico’”).

Ma, mentre sul caso della petroliera israeliana Netanyahu non ha trovato particolare contrasto, a parte la replica iraniana che si sarebbe trattata di un’operazione false flag per accusarla, le accuse di terrorismo ambientale riversate contro Teheran hanno suscitato un vespaio.

La smentita di Greenpeace

Si è citata la smentita della sezione israeliana di Greenpeace, che non solo ha parlato di una strumentalizzazione del disastro, ma ha anche specificato che non c’è alcuna prova che il petrolio sia fuoriuscito dalla Emerald, la petroliera libica-iraniana additata dal Ministro Gamliel.

Secondo Greenpeace manca la pistola fumante, peraltro di facile reperibilità: basta una banale comparazione tra il greggio inquinante e quello presente nella stiva della nave cisterna, un’analisi che non è stata fatta, con assenza che interpella.

Non solo, il fatto che la nave iraniana transitasse in quel tratto di mare non prova nulla, dato che è usuale per le petroliere iraniane usare tale rotta. E ce n’erano tante anche in quei giorni, ha aggiunto Greenpeace, mentre una petroliera libanese, la Romania, si trovava proprio nel luogo in cui si stima si sia verificata la perdita.

Né va dimenticato che capita spesso, purtroppo, e non solo alle petroliere iraniane, che per evitare le spese di pulizia richieste dai porti di attracco, si chieda agli equipaggi di ripulire le navi cisterne in mare aperto, con inquinamento conseguente. Crimine diffuso, non terrorismo.

L’accusa del ministro della Protezione ambientale, conclude Greenpeace, per la sua infondatezza, sta peraltro “minando la credibilità di Israele a livello internazionale, e in particolare la credibilità del ministero per la Protezione ambientale” (Haaretz).

I distinguo della Difesa e del Mossad

Alle accuse di Greenpeace si è associato il distinguo ben più pesante  della Difesa e dell’intelligence israeliana, che hanno fatto trapelare la propria sorpresa per le dichiarazioni del Ministro, che si è mosso senza coinvolgerle.

Una smentita soft, ma pesantissima. Ne riferisce, tra gli altri, il Jerusalem Post. Sul punto, Times of israel riferisce l’analisi di un esperto, Ori Disatnik, ex comandante di sottomarini israeliani.

Secondo Disatnik, le parole del Ministro sono smentite da semplici considerazioni: il fatto che la petroliera sia rimasta in quel tratto di mare per altre due settimane dopo la fuoriuscita del petrolio, mentre, in caso di atto deliberato sarebbe scappata; e che la perdita rappresenta l’1% del carico, mentre nel caso di un’azione deliberata si sarebbe scaricato a mare tutto il carico.

Alle polemiche interne israeliane si sommano quelle internazionali. Non solo le repliche iraniane sulle manovre “disperate” di Israele di incolpare l’Iran di “attività maligne” nella regione, anche quelle più circostanziate avanzate dalle autorità libanesi che, a loro volta, accusano della fuoriuscita, che ha inquinato anche le loro spiagge, una petroliera israeliana.

Accuse che intende portare alle Nazioni Unite perché indaghino sull’accaduto. Una richiesta che forse può spiegare il nervosismo del governo israeliano, dato che una richiesta del 2014, avanzata sempre dal Libano, aveva portato l’Onu a condannare Israele a pagare danni per 850 milioni di dollari.

Non solo, se tali accuse fossero prese seriamente in considerazione dall’opinione pubblica israeliana, sarebbe un brutto colpo per le speranze di rielezione di Netanyahu.

 

 

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