16 Settembre 2019

Attacco all'Aramco: Medioriente in bilico. E domani Israele vota

Attacco all'Aramco: Medioriente in bilico. E domani Israele vota
Tempo di lettura: 3 minuti

C’è un legame segreto tra il riaccendersi delle tensioni Iran-Usa e il voto israeliano, né forse potrebbe essere diversamente dato che Netanyahu ha legato il suo destino politico al confronto con Teheran.

Così se negli ultimi giorni la sua attenzione si è concentrata su altro, il nuovo gelo sull’asse Washington-Teheran non deve risultargli sgradito.

Ma iniziamo dal voto israeliano, che vede il ritorno imperioso del Mago, epiteto che Netanyahu gradisce giacché sottolinea la sua abilità.

Egli è riuscito a uscire dalla morsa delineata dai sondaggi pregressi data dallo stallo tra destra e centro-sinistra che consegnava ad Avigdor Liberman il ruolo di kingmaker e Israele a un governo di unità nazionale centrista senza Netanyahu.

Netanyahu e la questione palestinese

L‘ultimo sondaggio dà a Netanyahu una in-certa maggioranza di destra, con contorni da definire, cioè con o senza la destra radicale di Otzma Yehudit (Potenza ebraica).

Ciò, secondo i giornali israeliani, è stato possibile grazie a un rush finale che ha demolito i rivali. Un attivismo rivolto soprattutto alla questione palestinese.

Secondo Jackson Diehl, finora Netanyahu, pur nelle concessioni alla destra, si era formalmente barcamenato tra i “due Stati” o “un solo Stato”, che è poi una “scelta tra un paese laico e democratico, ma binazionale, o un regime di apartheid ebraico” (Washington Post).

Per vincere le elezioni ha abbracciato decisamente la seconda opzione, cara alla destra religiosa. Da qui l’annuncio di prossime annessioni, la Valle del Giordano e parte di Hebron, che ha suscitato proteste in ambito arabo e preoccupazioni in Europa.

Diverso anche l’approccio a Gaza, parte della questione palestinese. Finora Netanyahu ha lavorato a una pacificazione con Hamas, che controlla la Striscia. Ma ora è cambiato tutto.

Il premier israeliano ha annunciato una guerra contro Gaza, da iniziare peraltro prima delle elezioni, proposito che ha provato a concretizzare il 10 settembre, dopo esser stato oggetto di una minaccia missilistica ad Ashkelon.

Un’iniziativa che prevedeva il rinvio delle elezioni (Haaretz), bloccata dal Procuratore generale Avichai Mendelblit, che lo ha inibito dal decidere da solo rimandandolo a consultarsi con i responsabili della Sicurezza. Da cui l’accantonamento dell’idea.

Secondo Haaretz, “è ragionevole trarre la conclusione che l’opinione di Mendelblit fosse coordinata con i responsabili dei servizi di sicurezza”, evidentemente sfavorevoli all’intervento.

Ma al di là dell’episodio, resta il nuovo approccio di  Netanyahu alla vicenda palestinese, sulla quale, se vince, si avvarrà dell’appoggio degli Stati Uniti e del loro “piano di pace” basato sull’annessione.

Attacco all'Aramco: Medioriente in bilico. E domani Israele vota

L’Aramco in fiamme

Iran-Usa: si chiude la finestra di opportunità

Detto questo, il confronto con l’Iran per Netanyahu resta decisivo. E per una convergenza parallela costruita da segreti arcani, il suo ritorno di fiamma in Israele coincide con la nuova rottura Usa-Iran, dopo le aperture di Trump.

L’attacco all’Aramco, la più importante compagnia petrolifera del mondo, ha dimezzato la produzione dell’Arabia saudita, con prezzi del petrolio in salita e rischi di picchi ingestibili.

Caos complicato dall’accusa di Mike Pompeo all’Iran, che ha vaporizzato la possibilità di un incontro Trump-Rohuani a margine dell’Onu.

Accusando subito l’Iran, nonostante la rivendicazione esplicita dei ribelli Houti, che da anni bombardano i sauditi in risposta alle loro bombe sullo Yemen, il Segretario di Stato Usa ha inteso prendere il posto del defenestrato Bolton, proponendosi come uomo dei falchi nell’amministrazione Trump.

Non ci sono prove del coinvolgimento nell’attacco dell’Iran, che peraltro nega. Ma è circostanza secondaria: da tempo l’amministrazione americana usa legittimare le proprie accuse con fantasmatiche “prove dell’intelligence”.

Trump, trascinato da Pompeo, ha fatto sapere che gli Usa sono pronti a colpire.

Determinazione cui forse non è estranea la conversazione telefonica avuta con Netanyahu due giorni fa, che deve averlo convinto a non abbandonare l’alleato israeliano al suo destino, come sembrava proporsi con le aperture all’Iran e l’allontanamento di Bolton.

Tanto che, in extremis, ha regalato al premier israeliano un tweet in cui rilanciava “l’idea di un trattato di mutua difesa Israele-Stati Uniti, che nessuno ritiene sia una buona idea tranne Netanyahu, che peraltro in via riservata potrebbe condividere tale perplessità” (Haaretz).

D’altronde, Trump non può fare una politica estera mediorientale in opposizione al governo israeliano, come fece Obama, che condusse il negoziato sul nucleare iraniano contro il parere di Netanyahu. Almeno ad oggi è così.

Già, oggi. Domani è un altro giorno. Israele va a delineare il suo destino prossimo venturo con le elezioni forse più importanti della sua giovane storia. Vedremo.

 

Ps. Nessuna protesta, invece, per i crimini sauditi in Yemen, dove le bombe cadono su scuole, ospedali, bambini… Crimini contro l’umanità denunciati anche dall’Onu (New York Times).

Di oggi l’apertura iraniana, che si offre di favorire un  processo di pace in Yemen. Dovrà attendere.

 

 

 

 

 

 

 

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