6 Marzo 2018

Reti globali: esigenze di regole e rischi correlati

Reti globali: esigenze di regole e rischi correlati
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Per Niall Ferguson le reti globali rappresentano il nuovo potere del mondo. Osservazione banale, ma non lo è, dal momento che quando si parla di potere il pensiero corre alla politica. Non è così: incalzata dalla Finanza, la politica conta nulla anche a fronte del potere delle reti globali.

Intervistato sul Corriere della Sera da Massimo Gaggi, lo storico britannico spiega: «Troppo potere concentrato nelle mani di poche imprese: gran parte della sfera pubblica è dominata da monopoli digitali come Amazon, Google e Facebook. Queste società gestiscono servizi popolari, ma ciò dà loro un potere eccessivo e la possibilità di abusarne».

Da qui, per Ferguson, la necessità di introdurre regole. Cenni condivisibili, che però curiosamente fanno il paio con l’allarme lanciato alcuni giorni fa da un insospettabile fautore della democrazia globale, George Soros, che ha appunto proposto di regolamentare le reti perché «pericolose per la democrazia».

In realtà sta accadendo quel che i fautori della globalizzazione non si aspettavano, ovvero che le reti globali, nate a supporto della stessa, non si sono dimostrate al loro servizio, ma sono andate fuori controllo.

Si sono rivelate anzi controproducenti: la Brexit e la vittoria di Trump, in controtendenza rispetto ai dettami della globalizzazione, sono stati ascritti proprio alla ingovernabilità della rete.

I rischi di porre regole alle reti globali

Da qui la necessità di porre un freno «all’anarchia» e a spazi sottratti al controllo. Tema controverso dunque, che seppure pone problemi condivisibili, stante l’inaccettabilità di un potere tanto vasto nelle mani di pochi, deve essere valutato sotto diversi profili.

La necessaria regolamentazione rischia, infatti, di essere messa a tema non tanto a tutela delle masse, o dei cittadini del mondo per usare un termine meno volgare, ma per imbrigliare e comprimere spazi di libertà. Per metterle del tutto al servizio dei signori della globalizzazione.

Detto questo, appare più che interessante il cenno sul potere delle reti globali contenuto nell’intervista dello storico britannico: «Silicon Valley ha sbagliato la lettura degli eventi in Medio Oriente e in Nord Africa durante e dopo le Primavere arabe. Il presidente di Google Eric Schmidt e il manager Jared Cohen si erano detti certi che internet avrebbe aiutato i movimenti democratici contro i regimi autoritari».

Infatti, «con la deposizione di Hosni Mubarak le cose sembrarono andare in questa direzione: ricordo dirigenti di Google in piazza Tahrir a festeggiare».

Una fotografia molto istruttiva sulla rivoluzione egiziana, che evidentemente deve essere ascritta  più ai progetti di alcuni circoli internazionali che ai cittadini egiziani.

Ferguson spiega che il fallimento di Google fu causato dal fatto che non avevano previsto l’azione di un’altra rete, più locale, ovvero la Fratellanza islamica, che sequestrò la piazza e la rivoluzione.

Vero, ma certo senza l’attivismo indebito di Google, ché tale è la creazione in vitro di una rivolta popolare anche se indorata da aspirazioni democratiche (sulle quali ci permettiamo dubitare), si sarebbero evitati disastri.

Invece dei cannoni, si è usato Google per «esportare la democrazia». Un attivismo e parole d’ordine care ai neocon, che tanti danni hanno fatto con la loro rivoluzione neoconservatrice globale.

Cenno interessante, invece, seppure sotto altri profili, in altra parte dell’intervista, sulle criptovalute: «È lecito sperare, ma non mi faccio illusioni: le reti informatiche hanno sempre finito per concentrare il potere, la blockchain è dominata da pochi. Così come sono una ristretta élite coloro che beneficiano dei bitcoin. E anche l’attività di mining , l’emissione di criptovalute, è roba per pochi».

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