22 Gennaio 2020

Putin, il nuovo governo russo e l'India del post-Soleimani

Putin, il nuovo governo russo e l'India del post-Soleimani
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Il nuovo primo ministro della Russia Mikhail Mishustin ha annunciato il nuovo governo, la cui composizione dimostra che Putin, quando il 15 gennaio ha annunciato una stagione di riforme interne, intendeva anzitutto licenziare il premier uscente Dmitrij Medvedev. Lo avevamo scritto in altra nota, derubricando quanto scritto da tanti analisti nell’occasione a boutade.

Tali analisti spiegavano l’improvvisa accelerazione del presidente russo come un modo per perpetuare il proprio potere dopo la fine del suo mandato, che scade nel 2024.

In realtà un anticipo di quattro anni è davvero troppo per dar inizio a manovre finalizzate a tale obiettivo, che si poteva ottenere con molto minore sforzo. Sarebbe bastato semplicemente istituire un organo superiore al Parlamento con poteri di supervisione, una sorta di Politburo di rimembranze sovietiche, e il gioco era fatto.

Non solo, mandare a casa un governo di fedelissimi non è il massimo per garantirsi il prolungamento del proprio potere, dato che un governo siffatto poteva benissimo lavorare in tale prospettiva.

Il licenziamento soft di Medvedev

Invece, per comprendere quanto effettivamente avvenuto basta scorrere la lista dei ministri che affiancheranno Mishustin: i quattro ministeri più importanti, cioè Esteri, Difesa,  Finanze ed Energia sono rimasti immutati. Restano cioè al loro posto rispettivamente Serghej Lavrov, Serghej Shojgu, Anton Siluanov e Aleksandr Novak.

Oltre a loro, restano immutati altri 8 ministeri. Insomma, l’unico a esser fatto fuori è appunto Medvedev, considerato da tanti media, a torto e per anni, l’altra faccia di Putin.

Una defenestrazione soft, quella dell’ex primo ministro. Nei suoi confronti lo zar ha adottato lo stesso metro usato per il filo-occidentale e ultra-liberista Boris Eltsin, che durante la sua presidenza ha praticamente venduto la Russia alla mafia e all’Occidente, consegnandola agli oligarchi. Eppure quando è morto Putin gli ha tributato gli usati onori di Stato.

Putin non umilia i suoi antagonisti, li include. Così anche per Medvedev, per il quale ha inventato una carica nuova di zecca: vice-consigliere al Consiglio per la Sicurezza nazionale, del quale egli stesso è presidente.

E per mascherare ancor più la defenestrazione ha dato una riverniciata al nuovo governo, cambiando qualche ministro e qualche sottosegretario. Fosse stato tutto come prima, era evidente a tutti che si voleva solo il licenziamento di Medvedev.

La conferma di Lavrov a dispetto dei pronostici

Nei media occidentali era anche apparsa la notizia della sicura estromissione di Lavrov dal nuovo esecutivo. Il volto soft della diplomazia russa è personaggio odiato da tanti ambiti, che speravano di vederlo soccombere negli intrighi di palazzo.

Ma a tanti analisti era sfuggito un particolare: nel giorno in cui Putin annunciava il cambiamento, Lavrov era in India.

Potrebbe apparire una considerazione banale, dato che è compito del ministro degli Esteri girare il mondo. Ma banale non è se si tiene conto dell’importanza che Putin ascrive ai rapporti con l’India e alla natura della visita.

Putin sta infatti intessendo fecondi rapporti con New Delhi, tanto da coinvolgerla anche nello sviluppo della Siberia, ma soprattutto garantendole un ruolo primario nel grande gioco asiatico in combinato disposto con la Cina, un gioco del quale egli ha assunto il ruolo di playmaker (Piccolenote).

Ma la visita di Lavrov in India aveva anche un’altra valenza, ancora più importante. Nello stesso giorno, infatti, è sbarcato in India anche il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, insieme al quale ha dato vita a una sorta di trilaterale con il loro omologo indiano e con il presidente Nerendra Modi.

L’importanza di questo trilaterale asimmetrico è data dalla cronologia, perché si è svolto subito dopo l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani che ha scatenato l’escalation Usa-Iran.

Putin, il nuovo governo russo e l'India del post-Soleimani

Zarif e Modi

Putin e il trilaterale Iran-Russia-India

Accogliendo i due ministri degli Esteri, l’India ha voluto dimostrare a Washington che i suoi rapporti con l’Iran, vitale per il suo settore energetico, e la Russia, con la quale ha appunto intessuto nuove relazioni, sono rimasti immutati nonostante la nuova aggressività americana verso Teheran.

Il trilaterale di New Delhi potrebbe addirittura “significare un cambio di rotta diplomatica per l’India”, secondo Ashish Shukla, il quale, in un articolo di Russia Today, ipotizza che per l’India l’uccisione del generale iraniano, che ha messo a repentaglio le sue forniture energetiche e suscitato proteste nella sua popolazione islamica, potrebbe accelerare quel distacco da Washington già iniziato col governo nazionalista di Nerendra Modi.

Più attutita, ma dello stesso tenore, la nota di Rudra Chaudhuri sul “Carnagie India“, che, dopo aver accennato ai proficui legami tra New Delhi e Washington, chiarisce come, pur nelle diversità, India e Iran “condividono profondi legami culturali e storici […], una relazione alla quale l’India non può, né dovrebbe rinunciare, anche in uno scenario (ora improbabile) di un grave conflitto tra Stati Uniti e Iran”.

Insomma, viaggio di capitale importanza, quello di Lavrov a New Delhi, che certo non avrebbe intrapreso se non di concerto con Putin, che quindi non aveva alcuna intenzione di estrometterlo dal nuovo governo, del quale resta esponente di punta. A dispetto dei tanti improvvisati o interessati analisti.

 

Nella foto in evidenza, Putin e Mishustin

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